Kenya – Insieme con gli sfollati a Eldoret.

“Quando hanno attaccato e bruciato il mio villaggio sono venuta qui. Non abbiamo più nulla. Sono riuscita solo a salvare i materassi per mio marito e i miei figli. Ora sono dodici giorni che stiamo in questa chiesa. I primi giorni è restato anche mio marito ma poi è andato a stare da suo fratello, che si trova qua vicino, perché non c’erano coperte. Veniva a trovarci ogni giorno ma sono due giorni che non lo vedo. Mia figlia maggiore non sta bene, ha la febbre e da giorni ha un’eruzione cutanea”.
Judith

“I miei genitori sono rimasti al villaggio ma io e mia sorella ce ne siamo andate portando mia figlia perché ci hanno detto che ci avrebbero bruciato la casa. Siamo venute qui a piedi insieme a molte altre persone. Ora viviamo in dieci in questa tenda. Non possiamo tornare perché la nostra casa è completamente bruciata, non c’è più niente e comunque quella gente sta ancora lì e quindi è troppo pericoloso. Io non so che fare. Quella che stiamo ricominciando è una vita difficile perché non abbiamo niente”.
Christine

“Siamo venuti qui perché è un posto sicuro. Mi trovavo qui anche durante gli scontri del 1992 ma adesso le cose sono molto peggiorate. Allora non mi hanno bruciato la casa ma questa volta ho perso tutto. Sono venuto qui su un pickup, mi hanno portato insieme alla mia famiglia. Mi hanno bruciato la casa ma voglio tornare per costruirne una nuova. Spero che un giorno potremo tornare”.
Mwania

“Qui la vita è difficile ma almeno è sicura. Abbiamo abbandonato il nostro villaggio perché picchiavano gli uomini e minacciavano noi donne. Adesso viviamo qui in 15. La polizia sta riportando al villaggio alcune persone per prendere le proprie cose o per restare, se vogliono. Però non penso che noi andremo. Mio nonno dice che è troppo pericoloso, se torniamo magari circondano la casa e la bruciano con noi dentro”.
Margaret

 

“Dopo quello che è successo sono venuti in molti a casa mia, perché mi conoscono. Erano alla ricerca di cibo e di un riparo ma io non avevo granché da dargli. Sono venuta al posto di polizia di Langas (uno dei campi sfollati) perché ho pensato che la gente avrebbe cercato scampo qui. Quando ho visto quante persone c’erano ho capito che dovevo dare una mano.

Durante il giorno, il campo non è molto affollato perché molti ritornano ai loro villaggi per vedere se c’è ancora qualcosa da recuperare, poi alla sera rientrarono a dormire al campo. Alla clinica vediamo molti bambini con infezioni dovute al fatto che dormono fuori al freddo. Alcuni soffrono di vomito e diarrea per la mancanza di fognature.
Ho visto un bambino di circa dodici anni con un taglio da machete sulla schiena. Abbiamo medicato la ferita e lo abbiamo trasferito all’ospedale. Un altro bambino ha perso i familiari. Durante i combattimenti è scappato e ora non sa dove si trovino.
Poi ci sono molte persone che sono rimaste fortemente traumatizzate. Vengono da noi dicendo di avere mal di testa o dolori dappertutto. Noi l’abbiamo chiamata sindrome “hapa hapa” (qui qui). Puntano il dito su varie parti del corpo dicendo che gli fa male “qui” e “qui” ma in realtà la loro sofferenza è più psicologica che fisica”.

Albina Aluda, infermiera di MSF

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