In Libia siamo complici dei crimini che condanniamo?

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Editoriale pubblicato il 7 dicembre su Huffington Post

In Italia le terribili immagini mostrate dalla CNN sui migranti venduti all’asta come schiavi non hanno suscitato la stessa indignazione che si è registrata in altri paesi europei. Tuttavia hanno consentito di accendere nuovamente i riflettori su una situazione che le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie denunciano ormai da molti mesi: la Libia di oggi è un rullo compressore lanciato a tutta velocità contro migranti e rifugiati, schiacciati senza pietà da un sistema di detenzione arbitraria, sfruttamento, lavoro forzato ed estorsione, torture e violenza sessuale. Le reazioni politiche di vari paesi europei e africani hanno innescato un nuovo round di negoziati a livello internazionale.

Viene però da chiedersi quanto di queste intermittenti ondate di iperattivismo diplomatico e mediatico si trasformerà poi in iniziative concrete capaci di modificare l’andamento delle cose in Libia. Perché quasi nulla è cambiato per chi, in questo esatto momento, si affida a un trafficante per attraversare il deserto su un camion sovraffollato, subisce abusi e violenze in un centro di detenzione, oppure prega per la sua vita, a bordo di un gommone semi-affondato in mezzo al Mediterraneo.

Peraltro, gli stessi governi e istituzioni europee che a parole denunciano gli orrori perpetrati in Libia, nella realtà poi finanziano misure volte a favorire il ritorno di uomini e donne in quell’inferno, innanzi tutto attraverso il sostegno alla Guardia Costiera libica.

Solo pochi giorni fa, MSF ha prestato le prime cure a un centinaio di migranti in un centro di detenzione nella regione di Misurata, dopo che la Guardia Costiera libica li aveva riportati a terra, a seguito a un’intercettazione in mare. Inoltre, la scorsa settimana, la nave Aquarius, a bordo della quale opera un team medico di MSF, ha assistito a una di queste intercettazioni. E ancora, lo scorso 31 ottobre, alla nostra nave che stava apprestandosi a portare soccorso a 300 persone è stato esplicitamente richiesto di non intervenire e attendere invece l’arrivo della Guardia Costiera libica che le ha riportate nel luogo da cui cercavano di fuggire.

Operare in Libia è difficile per tutti. I migranti detenuti nei centri ufficiali sono triplicati e i network di trafficanti sono sempre più forti e meglio equipaggiati. In questa situazione, noi per primi dobbiamo riconoscere i limiti della nostra azione all’interno dei centri di detenzione. I nostri medici non hanno pieno accesso ai detenuti e non possono decidere in libertà quali pazienti visitare e curare, e ciò ci pone di fronte a dilemmi etici di non facile soluzione. Sappiamo che la nostra presenza in Libia rischia a volte di non aggiungere altro che un’umanizzazione di facciata a un sistema indegno. Cerchiamo di superare questo dilemma consapevoli che offriamo, nonostante tutto, un sostegno indispensabile a queste persone in estrema difficoltà. E ascoltiamo quello che queste persone hanno da raccontare, perché tutta la violenza e l’inumanità che hanno subìto durante il loro viaggio possa almeno servire a esporre pubblicamente la vergogna e la disumanità delle decisioni assunte dai governi per gestire i flussi migratori.

Le soluzioni non sono né semplici né uniche. Mostrare però indignazione per i crimini commessi contro i migranti in Libia, mentre contemporaneamente si porta avanti una politica che mira a bloccare le persone dall’altra parte del Mediterraneo, è semplicemente immorale. Il presidente francese Macron immagina di poter smantellare le reti di trafficanti attraverso azioni militari e di polizia in Libia, ma un nuovo intervento militare straniero non farebbe altro che alimentare le dinamiche del conflitto e concedere nuovi spazi alle milizie.

Allo stesso modo, il governo italiano rivendica come un incredibile successo il crollo delle partenze dalla Libia, che comporterebbe un indebolimento della rete dei trafficanti e la migliore accettazione sociale degli immigrati in Europa. Ma nella realtà l’effetto di queste politiche di contenimento è sottrarre al nostro sguardo e alla nostra indignazione la sofferenza di persone a cui è negata la fuga.

È presentata come politica seria e responsabile, o gestione ordinata dei flussi migratori, ma si chiama complicità.

Gabriele Eminente, Direttore Generale MSF Italia

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