Non ho scelta.

Non ho scelta… anche se muoio in mare devo arrivare nello Yemen. Magari ho una sola possibilità di farcela, ma se torno a Mogadiscio sono morto.

Somalo di 27 anni originario di Mogadiscio che ha perso due familiari.

 

Ogni anno migliaia di persone rischiano la vita per attraversare il golfo di Aden: somali in fuga dal loro paese ed etiopi che partono perché non trovano lavoro nel loro paese per motivi politici o a causa del conflitto nella regione di Ogaden. Le condizioni del viaggio sono terribili e la gente muore quasi sempre durante la traversata. Fino alla metà di dicembre di quest’anno hanno raggiunto la costa dello Yemen circa 28.000 persone delle quali 651 decedute e altre 659 disperse. Ma probabilmente il numero reale delle vittime è molto più alto. Dal settembre 2007, quando abbiamo avviato il nostro progetto, diamo assistenza medica e umanitaria a oltre 3.000 rifugiati e migranti in arrivo sulla costa dei governatorati di Abyan e Shabwa, nel sud dello Yemen. Gran parte della gente arriva stremata e distrutta emotivamente. Raccontano storie strazianti di morte e sopravvivenza. Ma la situazione che il team di MSF si è trovato davanti sabato 15 dicembre è stata di gran lunga la cosa peggiore che avesse mai visto. A questo proposito, vi riportiamo la testimonianza del team.
 

È iniziato come un giorno qualsiasi: ci siamo alzati intorno alle 6 per prepararci a ricevere notizie dai nostri centri dislocati sulla costa. Siccome non avevamo notizie, siamo andati a verificare di persona. Proprio mentre stavamo per partire abbiamo ricevuto una telefonata che ci informava che durante la notte era arrivata una barca nei pressi di un checkpoint militare, a circa 2 ore dalla nostra base, e che era morta molta gente. Siamo saltati in macchina dirigendoci lungo la costa, preoccupati per ciò che avremmo trovato. Il nostro team era composto da Akram, medico, Cristina, infermiera, Ahmed e Zenebe, i nostri operatori di counselling, Sasha, coordinatore del team, Hussein e io, il team degli affari umanitari, e Adni e Salem, i nostri due autistic.

Quando siamo arrivati al checkpoint ci siamo imbattuti in un gruppo di circa 50 persone che stavano sedute o sdraiate all’ombra delle caserme militari. Molte erano in cattive condizioni, stremate, con la nausea e con un’aria molto triste, alcune avevano le lacrime agli occhi. I membri del team hanno scaricato e distribuito acqua, biscotti, cibo terapeutico e datteri. I medici sono subito andati tra la gente per vedere chi aveva urgente bisogno di ricevere cure mediche. Hanno allestito un sito per le consultazioni sulla sabbia e iniziato a fare le visite. Nel frattempo gli operatori di counselling hanno effettuato delle sessioni di gruppo per spiegare il ruolo di MSF e le nostre attività sulla costa, anche per valutare chi aveva più bisogno di sostegno psicosociale.
Molte persone lamentavano dolori dovuti alla posizione scorretta cui erano state costrette nei tre giorni della traversata. Altre dicevano di avere mal di testa per il fatto di essere state sotto il sole cocente senza acqua né cibo. Molte persone avevano contusioni ed ematomi su tutto il corpo, segni di gravi maltrattamenti. “Siamo stati trattati come animali, non come esseri umani” ha raccontato alla nostra infermiera una venticinquenne di Mogadiscio che aveva segni di percosse su tutto il corpo. Un somalo di 25 anni originario di Merca ha aggiunto “Ci picchiavano ogni momento con i bastoni e i fucili”. Cristina ha effettuato oltre 30 medicazioni ed ha indirizzato ai nostri operatori di counselling le persone che manifestavano sintomi di ansia e stress.

 

Costretti a buttarsi in acqua

Quando Husein, Zenebe e Ahmed hanno cominciato a parlare con la gente è emerso un quadro drammatico. Ci hanno raccontato che la barca si trovava in prossimità della costa yemenita verso mezzanotte. “La barca si è fermata lontano dalla costa e i passeggeri sono stati costretti a buttarsi in mare” ci ha detto una somala di 25 anni venuta insieme al marito da Mogadiscio, “I passeggeri si sono rifiutati perché l’acqua era profonda e hanno chiesto di portare la barca più vicino alla costa. Allora ci hanno malmenato e quasi tutti i passeggeri si sono spostati su un lato della barca provocandone il capovolgimento. Quasi tutti sono morti perché non sapevano nuotare”.

“Sono stato tra i primi ad essere costretto a buttarmi” ha raccontato un somalo ventisettenne proveniente da Mogadiscio che ha perso due cugini. “Quando la barca si è capovolta sono caduto in mare. Non riuscivo a muovere le gambe. Mentre mi dimenavo tentando di nuotare ho trovato una tanica da 5 litri, l’ho afferrata e tenuta al petto. Quando ho raggiunto la spiaggia mi sono trascinato sulla terraferma. Ero paralizzato e non riuscivo a fare niente”. Molti altri non sono sopravvissuti. Un somalo venticinquenne di Merca ci ha detto “quando la barca si è capovolta io e mia moglie abbiamo raggiunto la riva a nuoto. Quando siamo arrivati sulla spiaggia mia moglie è morta e ho visto i miei figli: erano morti”.

 

Circa 100 persone sono decedute o disperse

Diverse persone ci hanno raccontato che quando la barca ha lasciato Bossaso, il porto situato sulla costa somala dal quale sono partite, c’erano in tutto 148 passeggeri. Noi abbiamo contato i sopravvissuti: erano 49, il che significa che circa 100 persone sono morte o disperse. Sembra che siano sopravvissuti pochissimi etiopi perché un etiope da noi intervistato ci ha detto “Quando siamo partiti eravamo 50 (etiopi) ed ora siamo rimasti in 8”. Un giovane Oromo che viaggiava con un gruppo di persone del suo villaggio situato nella regione di Bale, ci ha detto “sulla barca c’erano 10 persone del mio villaggio ed ora siamo solo 3. Ho identificato il cadavere di mio fratello sulla spiaggia ma gli altri sono dispersi”.
La barca, una struttura in vetroresina di circa 8 metri, era estremamente affollata, perfino più del solito (solitamente la media è di 90-120 persone a bordo). I nuovi arrivati ci hanno detto che la ragione di questo sovraffollamento era dovuta al fatto che a Bossaso le persone in attesa di partire erano più del solito a causa di un inasprimento dei combattimenti in Somalia. Alcuni superstiti ci hanno detto che sulla barca erano uno sopra l’altro. Uno degli Oromo ci ha detto “stavo seduto sopra a un corpo nella parte inferiore dello scafo. Ero scioccato e ho chiesto se quella persona era viva, non posso stare seduto sopra a un cadavere, ma quando mi volevo alzare mi hanno percosso. Volevo buttarmi in mare…”.
Per riempire la barca con il maggior numero di persone possibile, la gente, perlopiù passeggeri etiopi, viene stipata nella parte inferiore dello scafo in spazi angusti e privi di oblò, normalmente impiegati per le merci. Qui le condizioni sono anche peggiori perché non c’è sufficiente aria e fa ancora più caldo. I superstiti ci hanno detto che questa volta c’erano almeno 20 persone nello spazio adibito alle merci. Almeno quattro persone sono morte durante il viaggio. Un venticinquenne di Mogadiscio ci ha raccontato “alcune persone sono morte nella parte inferiore dello scafo perché sono rimaste senza cibo né acqua, faceva molto caldo e c’erano troppe persone. Quando qualcuno cercava di prendere aria veniva picchiato”. Quando la barca si è capovolta le persone che si trovavano nella parte inferiore dello scafo sono rimaste intrappolate e sono morte.

Mentre il team di medici proseguiva il suo lavoro e gli operatori di counselling davano sostegno ai tanti che avevano perso parenti stretti e amici, Adni distribuiva dei kit contenenti indumenti, ciabatte infradito e sapone. Dato che i nuovi arrivati erano stati per ore sotto al sole cocente, Adni ha montato una tenda accanto al furgone per farli stare all’ombra.

Una visione terribile

Nel frattempo Sasha, Akram ed io siamo andati sulla spiaggia per vedere se vi fossero altri superstiti e per raccogliere maggiori informazioni circa il numero dei deceduti. Quando siamo arrivati sulla spiaggia abbiamo visto decine di cadaveri: erano disseminati per un tratto di circa 5 chilometri. È stata una visione terribile: alcuni ancora galleggiavano nell’acqua, altri erano sdraiati sulla spiaggia, alcuni erano mezzo sepolti nella sabbia, altri a faccia in giù. C’erano molte donne e abbiamo trovato anche 5 bambini, il più piccolo aveva 8 mesi, come poi abbiamo saputo. Abbiamo contato i cadaveri: in tutto 56. Zenebe e Adni ci hanno raggiunto con sacchi di plastica e teli bianchi e così abbiamo iniziato a coprire i cadaveri per restituire loro un po’ di dignità. Mentre camminavamo abbiamo visto alcuni superstiti distrutti dal dolore che cercavano i loro parenti dispersi. Una donna somala e un ragazzo, suo nipote, ci hanno detto che lei stava cercando sua sorella e due nipoti, mentre suo nipote aveva perso lo zio. Un etiope era venuto a cercare sua sorella. Quando abbiamo raggiunto il limite di quel tratto di costa abbiamo visto lo scafo della barca rovesciata che fuoriusciva dal mare. È incredibile che 150 persone circa siano potute stare in quella barca di 8 metri.

Quando siamo tornati al checkpoint, i superstiti sono stati trasferiti nel centro di accoglienza. Mentre salivano sul furgone e li salutavamo, ho avuto un senso di rabbia nel pensare a quello che questa gente aveva dovuto subire quando tutto ciò che voleva, come ha detto una donna somala di 25 anni originaria di Mogadiscio, era “vivere in un posto sicuro e lavorare”.

Tornati alla base, ci siamo riuniti per fare il rapporto di questa terribile giornata. È stata molto dura per il team ma ci ha aiutato il fatto che ciascuno di noi aveva collaborato e fatto quello che poteva per aiutare i superstiti. Mentre ci chiedevamo come eravamo stati capaci di far fronte a questa tragedia terribile e continuare il nostro lavoro, Zenebe ha espresso ciò che tutti noi sentivamo, dicendo “Sono andato alla spiaggia. Ho visto tanti di quei corpi che non riuscivo a crederci. Ho chiuso gli occhi, ma quando li ho riaperti i corpi erano ancora là, e i granchi ci correvano sopra. Ero sotto choc e volevo fare qualcosa. Quindi sono andato al furgone e insieme ad Adni ho preso le sacche di plastica e ho cominciato a mettere i corpi nelle sacche. Ho continuato a camminare e a coprire i cadaveri ma con la mente io non ero là”.
 

Ingrid Kircher, Humanitarian Affairs Officer per MSF in Yemen

 

 

Condividi con un amico