Sud Sudan: le scelte estreme degli sfollati di Aburoc

Sud

Un anno dopo lo scoppio del conflitto nella regione dell’Upper Nile in Sud Sudan, molte delle persone che erano fuggite dalle violenze si trovano ancora intorno al villaggio di Aburoc. Ma presto questa comunità dovrà affrontare una scelta difficile: restare in questa zona, dove le condizioni di vita sono durissime e peggiorano di giorno in giorno, oppure tornare a casa nei loro vecchi villaggi dove ci sono ancora tensione e conflitti.

Dico ai miei figli che quando è tempo di morire, moriranno”, racconta Ana, davanti ai sette figli seduti fuori dal suo rifugio improvvisato. “La prima volta siamo scappati dalla città di Malakal, poi lo scorso anno i combattimenti ci hanno costretto a spostarci una volta ancora, perché la nostra casa era stata distrutta”.

A maggio dell’anno scorso, più di 38.000 persone erano fuggite dalle violenze verso Aburoc dove però ad aspettarli non c’erano né rifugi, né acqua, né cibo. Inoltre, con il passare del tempo, gli scontri tra il governo e le forze di opposizione si sono avvicinati anche a quest’area, spingendo le comunità a valutare l’ipotesi di uno forzato spostamento. Così alcuni hanno deciso di continuare la fuga verso nord, altri sono rimasti ad Aburoc dove ci sono solo un mercato, qualche negozio di tè, chiese e un negozio che ripara biciclette.

Trattori stracolmi provenienti dal Sudan riforniscono le bancarelle, ma le persone non hanno i soldi necessari per comprare i loro prodotti. La maggior parte vive in rifugi in vimini con fogli di plastica come tetto.

Questo costante fuggire da un villaggio a un altro ha delle ripercussioni sulle comunità. Se alcuni decidono di ripartire, altri sono ancora mentalmente e fisicamente esausti dalla traversata dello scorso anno”, dichiara Paiva Dança, responsabile dei progetti di MSF ad Aburoc. “Alcune persone non riescono a pensare al futuro, la maggior parte di loro seguirà semplicemente la decisione del gruppo”.

La comunità di 8.500 persone sfollate ad Aburoc dovrà prendere una decisione critica nei prossimi mesi. Tra febbraio e maggio le risorse d’acqua saranno insufficienti e l’opzione, molto costosa, di trasportare l’acqua dal distante fiume Nilo è ancora in discussione tra le organizzazioni umanitarie e le autorità.

Anche se alcune delle ONG internazionali ad Aburoc sono impegnate a fornire acqua alle popolazioni, è importante ricordare che otto mesi fa è stata registrata una crisi di colera nel campo. Se vogliamo evitare una nuova esplosione dell’epidemia, dobbiamo necessariamente mantenere alti gli standard qualitativi e quantitativi di acqua”, afferma Jaume Rado, capo dei progetti in Sud Sudan per MSF.La pace, in questa zona del Sud Sudan, è fragile”, continua Jaume. “Gli sfollati interni hanno bisogno di sentirsi sicuri abbastanza per decidere di tornare a casa, quando sarà il momento. Fino ad allora, dovrebbero essere messi nelle condizioni di rimanere dove sono”.

Oggi la comunità degli sfollati che al momento si trova ad Aburoc ha davanti a sé tre opzioni. Possono restare, forse per un altro anno, e potenzialmente assistere al deterioramento ulteriore delle condizioni, con l’accesso all’acqua potabile sempre più scarso. Oppure, possono tornare ai loro villaggi con la probabilità di dover affrontare le stesse violenze da cui sono fuggiti. Ultima ipotesi, possono continuare a fuggire verso nord, lontani da amici e famiglia, dove le condizioni di vita nei campi rifugiati, però, sono molto dure.

“Il Sudan non è casa mia. Andrò a nord solo se l’acqua diventerà cattiva, altrimenti rimarrò qui”, è la risposta di una donna a cui era stato chiesto se volesse andarsene dal suo paese. Un’altra donna, invece, ha preso una decisione diversa. “Tornerò a casa nel mio villaggio nelle prossime settimane a prescindere da quello che succederà. Penso che la mia famiglia starebbe meglio lì”.

Alcune organizzazioni umanitarie nella zona stanno cominciando ad andarsene per rispondere ad altre emergenze. Ma le persone necessitano ancora del loro aiuto dato che la vita ad Aburoc non è sostenibile senza le riserve di cibo, acqua, protezione e cure mediche.

Già oggi le razioni di cibo sono scarse e molti sfollati devono ogni giorno centellinare le proprie risorse economiche per comprare l’essenziale. Alcuni lavorano saltuariamente per alcune ONG internazionali, altri creano e vendono carbone. Non è raro vedere vedove che distillano e vendono il liquore locale, chiamato Marrisa, per poche sterline sud sudanesi.

Le equipe di MSF sono state al fianco di molte di queste persone durante i loro viaggi traumatici. Due dei progetti di MSF, in Wau Shilluk e Kodok, sono stati distrutti dai combattimenti e, insieme alla popolazione, anche MSF è stata costretta ad abbandonare l’area. Dall’inizio del mese di febbraio del 2017, MSF ha aperto un piccolo ospedale da campo ad Aburoc per far fronte ai numeri in crescita esponenziale.

Nei primi giorni abbiamo visitato, principalmente, pazienti con malattie respiratorie, diarrea. Siamo molto preoccupati per i pazienti che necessitano di medicinali, come coloro che convivono con l’HIV”, spiega Irenge Lukeba Landry, già coordinatrice delle attività mediche per MSF.

Sosterremo il diritto delle persone a restare ad Aburoc o di tornare a casa. Nel caso decidessero di tornare alle loro abitazioni, forniremo i servizi umanitari e medici laddove le comunità decideranno di fermarsi. Speriamo che altri gruppi umanitari facciano lo stesso”, conclude Jaume Rado.

 

Condividi con un amico