Un racconto dal Darfur.

La pista disordinata che corre serpeggiando tra Mornay e Zalingei, nel Darfour occidentale, è solo una lunga sfilata di villaggi e borghi devastati dal fuoco, distrutti con scientifica meticolosità, in cui le grandi giare panciute in terracotta, i “quola” per l’acqua fresca, giacciono rovesciate, annerite dal fuoco, ridotte in pezzi. Un racconto dal Darfur.

La strada tra Zalingei e Mornay attraversa il cuore dei villaggi. Le case sul bordo della pista, con le loro porte in ferro sventrate, la loro struttura carbonizzata, si aprono su scene di razzia: ripiani rovesciati, pavimenti coperti di scatole vuote, resti di una botteguccia o di una drogheria. Sedie rovesciate, sgabelli dalle gambe rotte, ciotole in smalto bianco decorate con un grande fiore blu o arancione sono sparsi per le strade del villaggio, testimoni della fuga precipitosa degli abitanti, testimoni della spietata violenza degli attaccanti. Non una sola casa è stata risparmiata. Le piccole siepi d’acacia o gli altri cespugli spinosi, che solitamente circondano le case e ne delimitano i giardini, si sono trasformate in scie di cenere nera che volano via.

La strada attraversa il villaggio di Sura, che, a quanto dicono i suoi abitanti, non temeva “confronti” in termini di ricchezza, dinamismo, bellezza dei campi… Oggi non resta praticamente nulla di questo grande borgo sulla strada. Come gli altri villaggi, ma forse con una meticolosità ancor più scientifica, è stato distrutto. Alla svolta della pista, una nuvola di minuscoli uccelli rosa e bianchi dalle ali poco più grandi di quelle di una farfalla prende il volo tra grida e sbatter d’ali. E da dietro l’arbusto spinoso (un’acacia, forse?) dove avevano trovato rifugio, si alzano cinque dromedari insolentemente noncuranti al rumore del motore.

Sembra che siano i soli padroni del villaggio carbonizzato, ma il loro guardiano non è certamente lontano. Spesso si vedono, in lontananza, sullo sfondo delle colline ocra e terra di Siena, le macchie bianche di grandi greggi di pecore, di capre, accompagnate da ragazzini. I campi abbandonati dagli abitanti dei villaggi servono da pascolo per le greggi rubate. Perché alla distruzione dei villaggi è stato affiancato il furto sistematico delle greggi. Nei campi profughi, ognuno recita il numero esatto dei capi di bestiame rubati: 56 capre, 34 pecore, 11 vacche dalle corna lunghe… Questa litania si ripete in tutti i ripari di fortuna, privi di tetto, che riempiono ogni più piccolo spazio libero nelle poche città in cui hanno trovato rifugio.

Così, su questa strada di desolazione, s’incontrano solamente greggi di vacche, gruppi di cammelli, branchi di capre e pecore, accompagnati da uno o due guardiani, molto spesso dei bambini. Ogni tanto alcuni di questi villaggi, o ciò che resta di loro, vengono dati nuovamente alle fiamme per far capire ai pochi abitanti che potrebbero aver l’ardire di ritornare, che è meglio non pensarci. Pochi, per non dir nessuno, tra gli abitanti di questi villaggi attaccati tra novembre e marzo si sono avventurati nelle strade deserte, quantomeno per recuperare le poche stoviglie scampate alle fiamme. L’impresa è troppo pericolosa, si rischia la vita.

La strada tra due villaggi attraversa rade “foreste” di maestosi alberi di mogano. Ma ogni albero, come tutti quelli che incontriamo sul bordo della strada, ha perduto i rami più belli, tagliati a mezza altezza e abbandonati ai piedi della pianta, foglie a terra come tante piccole tende triangolari. Oche, cavalli e cammelli si riuniscono là sotto per mangiare le foglie verdi.

Poco prima di arrivare a Zalingei la strada diventa più regolare e meno caotica. Gli alberi sono più numerosi, l’acqua non è lontana. Anche gli incontri sono più numerosi: bambini dai piedi nudi, con gli abiti stracciati di un colore indefinito, che camminano veloci malgrado il sole che brucia, malgrado il vento che brucia ancor di più, con un fagottino di legna sulla testa. Spesso hanno camminato per più di 6 ore per portare il loro bottino ai genitori. Dei pezzetti di legno, che rappresentano comunque una ricchezza inestimabile per i profughi di Zalingei: venduti al mercato, sono la loro unica fonte di reddito; con loro si può cuocere l’asida, puree di sorgo che costituisce l’unico pasto della giornata; permettono anche di rattoppare la paglia che funge da parete per questi piccoli rifugi di fortuna, senza tetto, che da oltre 6 mesi sono la loro casa. Di conseguenza, ogni mattina, molto prima dell’alba, i bambini escono per cercare pezzi di legno o paglia. Gli uomini non possono andare, perché verrebbero uccisi. E sì che potrebbero trasportare quantità molto più grandi. Neppure le donne ci vanno, se possono evitarlo e se possono mandare i bambini o gli anziani: le milizie armate, se le catturano, usano loro violenza. Allora vanno i bambini, e i vecchi che camminano più lentamente; escono poco dopo la mezzanotte per svolgere il loro lavoro quotidiano, andando ogni volta più lontano, là dove trovano ancora erba e legna. Rischiano al massimo di essere picchiati e frustati. Escono di notte perché è più facile nascondersi e il rischio di essere catturati è minore.

Su questa strada, al limitare di Zalingei, si incrociano anche gruppi di asini così carichi di balle di erba che a malapena si vedono le orecchie dell’animale. Al loro fianco, donne, bambini, bastoni in mano, che salutano con grandi gesti della mano, gridando “Khawaja! Khawaja!” (il ricco! il ricco!). Sono le famiglie delle milizie, che possono uscirsene dal villaggio senza temere per la propria vita. E’ mezzogiorno Rientrano in città per andare al mercato, a vendere il loro raccolto agli abitanti dei villaggi bruciati, che sono prigionieri qui.

Guardando indietro, il viaggiatore vede di lontano, al limitare dell’ultimo villaggio bruciato, al margine del wadi, una colonna ocra che s’innalza e turbina impazzita nel cielo blu, sempre blu, nient’altro che blu. E’ un Hoboub, un piccolo tornato di sabbia e di vento bollente che attraversa il villaggio. Non c’è più nulla da distruggere, da travolgere, da fare a pezzi, al massimo trova uno sgabello, uno specchio rotto, un cucchiaio di ferro bianco da seppellire sotto una coltre di sabbia dorata.

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