Mirella Riccardi

Mirella Riccardi

Psicologa MSF

Coronavirus in Italia: “Quando trema ogni certezza”

Mirella Riccardi

Mirella Riccardi

Psicologa MSF
Coronavirus in Italia: “Quando trema ogni certezza”

Questo coronavirus ha improvvisamente fatto tremare ogni certezza in questo nostro luogo, in questo nostro tempo. L’epidemia non riguarda più fragili paesi, così come l’umana fragilità non appartiene solo a culture lontane.

La minaccia alla vita si è fatta vicina e la limitatezza delle conoscenze e delle certezze è ora ed è qui. Che si fa dinanzi a un accadimento che ci ricorda il nostro limite ma anche le nostre possibilità? Collaborare, sicuramente.

E quindi c’è chi attinge da esperienze passate in altre epidemie, chi si prende cura delle ferite del corpo, chi ascolta dolori più invisibili. Io ero da poco rientrata da una missione in Repubblica Democratica del Congo quando sono stata chiamata per raggiungere Lodi.

Il tempo di tirar fuori dall’armadio abiti pesanti, organizzare una valigia, dare un abbraccio a chi è rimasto a casa e ripartire. Come psicoterapeuta, nella mia terra d’origine come altrove, ho scelto di incontrare le persone, di ascoltarne l’umana sofferenza. Sostare nel dolore insieme all’Altro. Ascoltare la parola e il silenzio, un pianto e un sorriso. Ecco, oggi, il mio mestiere qui. In un ascolto autentico risiede la possibilità di cura: il senso più antico del mio mestiere.

L’intervento delle attività di Salute Mentale di MSF si è svolto in alcuni ospedali e strutture per anziani nel lodigiano, con l’obiettivo di dare supporto al personale medico, paramedico, agli operatori e ai pazienti in queste strutture colpite dall’emergenza.

Ed è così che ho incontrato lo smarrimento di chi si prende cura, il dolore di chi ha visto troppi pazienti morire senza la mano di chi li ama, l’abnegazione di chi dedica ogni energia in corsia, la stanchezza di chi combatte contro qualcosa che corre senza sosta a volte vanificando gli infiniti sforzi.

Ho sentito la paura di chi deve tornare a casa dopo un lungo turno, lo sconforto di non poter prendere né dare il conforto di un abbraccio per proteggere dal contagio chi si ama: un doppio doloroso isolamento.

Ho accolto la rabbia di chi ha visto colleghi ammalarsi e teme per sé stesso, la rabbia per l’impotenza dinanzi a questo sconosciuto.

Ho visto occhi pieni di lacrime perché ci si sente addolorati, spaventati, persi. Ho incontrato il coraggio di chi dice di aver paura, di chi si ferma dinanzi a qualcosa di insostenibile, prende fiato, per poi ricominciare.

Ho vissuto in corsia momenti di tenera calda ironia tra i colleghi e tra il personale e i loro pazienti. Ho condiviso sorrisi visibili solo dalle splendide rughe degli occhi.

Esserci, in reparto, in carne ed ossa, seppur bardata come astronauta, ad ascoltare i racconti e i sentimenti dei pazienti. Navigare con loro tra luoghi e tempi.

Ascoltare chi racconta la vita prima di questo “affare”, chi è arrabbiato per questa forzata solitudine, la voce di chi ha paura di non farcela e la voglia di tornare a vivere, la sofferenza di chi è sopravvissuto e sta per tornare a casa, sì, anche il rientro a casa si fa talvolta malinconico, perché resta la paura di ciò che è stato e la preoccupazione di contagiare ancora.

C’è chi attende con angoscia e speranza l’esito del “bastoncino”, la sofferenza di chi sa che non sarà mai più come prima, la paura e il desiderio dell’avvenire. C’è chi si commuove perché sente il tempo del nostro dialogo una boccata di ossigeno.

Io porto con me racconti e stati d’animo. Stare con il dolore dell’altro implica non di rado l’abbandono di iperspecializzazioni, setting noti e protocolli fissi eppure richiede un forte orientamento per consentire all’altro di perdersi, soffrire, per poi ritrovarsi.

Oggi continuo il mio lavoro qui per poi ripartire, in ogni luogo in cui ci sarà bisogno.

Condividi con un amico