Dall’altro lato del mare l’inferno, da questo lato noi

Dall altro lato del mare l inferno da questo lato noi

Sono la coordinatrice dei progetti di Medici Senza Frontiere in Sicilia e, quando guardo il mare, per me non ha più lo stesso significato ormai. Se è mosso, penso che non salperanno. Ma ho paura che ci sia già qualcuno in mezzo al mare di cui forse non sapremo mai. Se è calmo, allora partiranno. In tanti. Con speranze e illusioni. Qualcuno arriverà. Li accoglieremo perquisendoli. Come criminali. Ma non c’è più molto da levargli di dosso. Gli hanno già tolto tutto nell’inferno libico. Tutto quello che non gli aveva ancora tolto il loro paese o il Sahara.

Vedo le ferite sulla pelle nera degli africani e su quella bianca dei medio-orientali. Ormai la violenza non fa discriminazioni. Le vedo su una marea umana che scappa, e che i nostri malati confini costringono a diventare merce di scambio. Ogni gesto che ci sforziamo di fare è così infinitamente piccolo rispetto al dramma di cui siamo testimoni. Stando su quel molo ciò che è più duro per noi di Medici Senza Frontiere non è assolutamente il lavoro di accoglienza e di filtro medico. Né il freddo. Né la stanchezza. È vedere e sentire quanto attuale sia il tempo della schiavitù e del razzismo. Il tempo della paura, dell’ignoranza, dell’ingiustizia.

Il team MSF in Sicilia

Il nostro team è presente in Sicilia da ottobre 2013. Da allora la crisi siriana non si è arrestata. I conflitti africani neppure. Né la violenza nelle carceri del Sinai. Né l’anarchia assassina della Libia. Chi è riuscito a sopravvivere a queste violenze e alla roulette russa del viaggio in mare, è arrivato. E noi siamo lì sul molo, a Pozzallo in provincia di Ragusa e, per 5 mesi siamo stati ad Augusta in provincia di Siracusa. Le chiamano le “nuove Lampedusa”.

Spesso siamo i primi sguardi che incrociano, le prime mani che stringono. Anche se al momento dello sbarco la nostra azione medica è molto limitata, ci teniamo a esserci. Non vogliamo che dopo tutte quelle violenze ci siano solo uomini armati ad “accoglierli”. In quella prima fase identifichiamo le urgenze da inviare in ospedale. Poi inizia il triage medico di eventuali malattie infettive o altre patologie importanti, anche se nella maggior parte dei casi chi riesce ad arrivare è in buone condizioni di salute generale.

Di dove sei? Quando sei partito?

Nella tenda del triage in un anno abbiamo incontrato più di 40.000 persone. A volte hai pochi minuti, altre volte c’è un po’ più di tempo. In quei minuti scambi qualche parola. Di dove sei? Quando sei partito? È una fase strana. Nonostante la stanchezza e la paura, sono arrivati. Sono vivi. Sorridono. Molti ci ringraziano. Alcuni chiedono a noi come stiamo. Altri ci chiedono dove sono. Mi ricordo una donna somala paraplegica arrivata in sedia a rotelle. Ha viaggiato così dalla Somalia a qui. Ricordo intere famiglie di siriani con gli occhi ancora pieni di immagini che non potranno più cancellare. Un anziano signore continuava a ripetere “Ho visto la morte 3 volte”. Ricordo una bambina neonata, salvata grazie al giubbetto salvagente che i genitori hanno fatto in tempo a metterle, prima di morire annegati. Ricordo le parole di una ragazza senegalese: “Io non voglio addormentarmi per paura di sognare quello che è successo. Non voglio mettere mai più i piedi in mare. Non voglio più vedere il mare. Mai più”.

I nostri medici, infermieri e mediatori culturali sono lì, ascoltano, forniscono le prime cure, una medicazione, un cerotto, una medicina per alleviare il dolore, eseguono qualche test diagnostico di base, la glicemia, il test per la malaria. A volte semplicemente ascoltano e rispondono. Nessuno di noi è più lo stesso dopo questi incontri.

Un viaggio senza fine

Ma il viaggio non è finito. I primi giorni le persone resteranno al centro di prima accoglienza. Poi verranno trasferite nei centri di seconda accoglienza. La grandissima maggioranza sono richiedenti asilo. Spesso sono costretti all’inerzia in attesa della commissione per la valutazione della domanda d’asilo, dell’esito di questa, dell’inserimento in strutture per l’integrazione. In questa fase riemergono tante immagini del passato. L’inedia forzata e l’impossibilità di lavorare non li aiutano. Le psicologhe MSF coadiuvate dai mediatori culturali, identificano le persone che più di altre hanno bisogno di essere supportate e le accompagnano per un po’. Quando è necessario, le indirizzano alle strutture territoriali competenti. Non è facile identificare i cosiddetti vulnerabili… tutti quelli che hanno affrontato questo viaggio hanno enormi motivi di sofferenza.

Migliorare il sistema di accoglienza. Insieme!

Il 2014 è finito con un record di ingressi. I flussi non si arrestano. Anzi le previsioni stimano un aumento. Il nostro sistema di accoglienza è ancora troppo spesso di carattere emergenziale, e ancora fa fatica a garantire un livello dignitoso. Gli operatori del settore sono spesso impreparati. Le dinamiche tra i diversi attori sono estremamente complesse e tante volte poco coordinate.

MSF ha deciso di rimanere. Perché il fenomeno è di portata enorme e perché si tratta di dignità e salute di migliaia di persone. Vogliamo mantenere la nostra indipendenza, la nostra neutralità, la prossimità con i pazienti. Vogliamo essere la loro voce. Vogliamo curare il singolo malato ma anche essere promotori di un approccio diverso. Vogliamo puntare i riflettori sulle dinamiche che costringono le persone a questo viaggio, sugli aspetti che vorremmo migliorare in questo sistema di accoglienza.

In un contesto come questo, l’unico modo per farlo è lavorare in rete con gli altri attori, istituzionali e non. Ecco perché dal 1 febbraio MSF lavora all’interno del centro di Primo soccorso e accoglienza (Cpsa) di Pozzallo, in collaborazione con l’azienda sanitaria provinciale (ASP 7) e coordinati con la prefettura di Ragusa. Una bella sfida, non ce lo nascondiamo. Lavorare in un centro governativo è una decisione per molti aspetti rivoluzionaria per un’organizzazione che fa della sua indipendenza la sua bandiera. È questa la difficoltà. Lavorare insieme, gomito a gomito con gli altri, ma senza perdere quello che siamo. Senza scendere a compromessi, ma comprendendo tutte le difficoltà di chi lavora qui ogni giorno. Contribuendo a creare sinergie che portino a un miglioramento sostenibile sia del sistema che, soprattutto, della cultura dell’accoglienza.

Dall’altro lato del mare l’inferno. Da questo lato noi. Non so se sperare che il mare sia mosso o calmo. Ma domani ci saremo ancora su quel molo. Perché il mondo si migliora con tanti gesti infinitamente piccoli.

Chiara Montaldo,  coordinatrice dei progetti MSF in Sicilia

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