Dallo slum alle risaie. Lettera dal Bangladesh

Il nostro Direttore Generale, Gabriele Eminente, è appena rientrato dal Bangladesh. Questo è il racconto dei suoi giorni nei progetti MSF.

Dallo slum alle risaie

L’aereo, un turboelica da una quarantina di posti, impiega meno di un’ora per raggiungere Cox’s Bazar. L’aeroporto è piccolo: pochi metri a piedi e si raggiunge il cancello, aperto sul piazzale. L’auto di MSF è già lì, puntuale.

Sono in Bangladesh da una decina di giorni. Ho lavorato finora nell’ufficio di coordinamento della missione, a Dhaka, e sul progetto a Kamrangirchar, uno slum in periferia: un formicaio di piccole fabbriche, tessili, concerie e metallo. Qui MSF si prende cura della salute di ragazze e donne, delle vittime di violenza, e dei lavoratori, esposti a ogni genere di rischi professionali.

Ho preso l’aereo per passare qualche giorno su un altro progetto, quello di Kutupalong, nella punta meridionale del Paese, al confine con il Myanmar. Da Cox’s Bazar a Kutupalong è un’ora di macchina. La strada costeggia il mare. Il panorama è molto bello, il mio collega mi spiega che è la stagione migliore, questa: il mare è limpido. Nella stagione delle piogge s’intorbida del fango scaricato da fiumi e torrenti.

Il contrasto con Dhaka è molto forte: là il traffico folle, l’inquinamento, cantieri dappertutto, la megalopoli che cresce a un ritmo ingestibile. Qui palme, mare, silenzio. A un certo punto la strada piega verso l’interno e cominciano le risaie, a perdita d’occhio. Ogni tanto si vede un bufalo, ancora impiegato dagli agricoltori come animale da traino.

La base del progetto MSF è ai margini di una cittadina, Ukhia. Una palazzina a ridosso delle risaie ospita sia la casa che l’ufficio. Il team di operatori internazionali che coordina il progetto si è formato da poco, ma è  già molto affiatato. Come sempre, provenienze diverse: Svezia, Stati Uniti, Brasile, Germania, Afghanistan, e due colleghe italiane. Mi accolgono calorosamente, mangiamo qualcosa e mi raccontano un po’ del loro lavoro. 

I Rohingya in fuga dal Myanmar

Siamo nella zona di confine con il Myanmar, dove forniamo assistenza ai Rohingya, una popolazione discriminata oltreconfine per ragioni etniche e religiose. Negli ultimi tempi la situazione è peggiorata, e i nuovi arrivi sono nell’ordine delle decine di migliaia. Molti Rohingya vivono in situazioni difficilissime, in campi e insediamenti improvvisati. Le condizioni igieniche sono critiche e l’accesso alla salute è un miraggio. Molti di loro sono privati della cittadinanza, senza documenti. 

Il nostro ospedale nel campo profughi

Qui MSF costruì alcuni anni fa un ospedale ai margini di uno dei campi profughi più popolati. L’ospedale ha un ambulatorio, un reparto degenza da 52 posti letto, un laboratorio di analisi;  nella struttura MSF ci si occupa anche di ostetricia e neonatologia, di tubercolosi, HIV, morbillo (una malattia che in un contesto come questo è molto pericolosa). Un altro problema molto grave è la malnutrizione infantile. MSF cura inoltre le vittime di violenza sessuale, e offre servizi di salute mentale. Infine, l’ospedale è il presidio anche per rispondere in caso di emergenze, come lo scoppio di casi di colera, o tifoni. I servizi sono naturalmente gratuiti e offerti a tutti, indipendentemente dalle loro origini, religione e genere.
L’ospedale è bello, semplice, funzionale. Una struttura bassa, a un piano. I vari reparti sono isolati da piante, che fanno anche ombra. La coordinatrice mi accompagna e mi presenta i colleghi, quasi tutti del Bangladesh.Oggi nella maternità ci sono 8 neonati, vincono le femmine, 5 a 3. Stanno tutti bene. Nel letto in un angolo del reparto degenze un ragazzo con traumi alla testa e ad una delle gambe. Accanto al letto lo veglia una ragazza silenziosa vestita di scuro. L’ospedale e il campo profughi sono ai due lati della stessa strada, la provinciale che va verso sud. Sui margini  della strada, piccoli negozi e bancarelle, un mercato che è il cuore del villaggio. 

Come lavorano i promotori della salute

La “cinghia di trasmissione” fra l’attività dell’ospedale e la vita del campo profughi è garantita da ventidue nostri colleghi: la squadra di promotori della salute che lavora a tempo pieno all’interno del campo. Sono della zona, parlano la lingua di questa regione.

I promotori promuovono i programmi di vaccinazione, informano gli abitanti del campo dei servizi disponibili in ospedale. Quando è necessario, MSF distribuisce anche coperte, cibo e altri generi di prima necessità.

Il campo è diviso in zone, e ognuno dei nostri colleghi ha la responsabilità di una di queste. Ciascuno di loro passa la sua giornata andando casa per casa – se di case si può parlare – per informare e anche, soprattutto, per monitorare eventuali situazioni che meritino l’attenzione dei nostri medici.

Conosco Mizan, trent’anni, uno dei ventidue promotori della salute. E’ a inizio turno, entro nel campo con lui. Il campo profughi occupa un’area molto estesa, piccole colline basse. Non c’è un punto da cui si riesca a vedere tutto, non si coglie quanto sia grande, ma attraversarlo richiede ore. Alla prima impressione ricorda un presepe povero: una miriade di baracchette che si arrampicano sulle colline, le mura di vari materiali, spesso fango. I tetti sono ricoperti di rami e foglie, così che le baracche quasi si mimetizzano. Ogni tanto una di queste piccole abitazioni è adibita a negozio, con la poca merce disponibile esposta. Poche costruzioni all’interno del campo sono più solide: qualche struttura comunitaria e, soprattutto, diverse moschee. 

Accanto al lavoro di MSF sulla salute, altre organizzazioni hanno lavorato costruendo pozzi, latrine, canali di scolo. Fa caldo e quindi a ogni pozzo gruppi di bambini si schizzano giocando.

Un ringraziamento senza retorica

Fatto un primo giro nella sua zona, Mizan gentilmente mi accompagna a conoscere altri suoi colleghi, e, di fatto, giriamo tutto il campo. Si stima che ci vivano più di 7000 nuclei famigliari, che vuol dire ben oltre 30.000 persone. Attraversiamo le zone dove si sono insediati gli ultimi arrivati, qui da qualche settimana: le baracche non sono altro che pali di bambù ricoperti da teloni di plastica.

Prima di terminare il giro, una signora con un bimbo in braccio ci raggiunge e dice qualcosa a Mizan. Ha riconosciuto il simbolo di MSF e si è avvicinata per ringraziare. Quando il suo bambino è nato, per qualche complicazione  è rimasta ricoverata 15 giorni in ospedale, ma ora tutti e due stanno bene. Scrivere di episodi come questo, di un ringraziamento spontaneo e inatteso, suona retorico, ma quando si ha la fortuna di vivere un momento così, in quel momento non c’è retorica.

Rientrando verso casa, ai margini della strada si scorgono gruppi di donne e bambini. L’autista mi spiega che sono là perché talvolta passano automobili che donano cibo o piccole quantità di denaro.  

Il giorno dopo è l’ultimo sul progetto per Thomas, un giovane medico tedesco che ha passato qui nove mesi. A sorpresa il logista dell’ospedale ha organizzato un pranzo cui siamo invitati. Ci s’incontra in quella che i miei colleghi chiamano “la sala da the”, una casa un po’ fatiscente lungo la strada, poco fuori dall’ospedale. Il cibo è molto buono. Seguiranno nel pomeriggio altri momenti di saluto e ringraziamento per Thomas, che, per quanto si sforzi, è emozionato.

Rientreremo poco dopo a Dhaka, con lui e Ramona, la psicologa italiana che si occupa dei programmi di salute mentale. Prima la bella strada sul mare e poi di nuovo l’aeroplanino. Posso solo provare a immaginare, io che sono di passaggio, quanto questi posti e questo progetto rimarranno nella memoria e nel cuore di chi ci ha lavorato per tanto tempo. 

 

   Gabriele Eminente, Direttore Generale di Medici Senza Frontiere Italia

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