Alessia Cornaz

Alessia Cornaz

Ostetrica MSF

Gli sguardi li capiamo tutti

Alessia Cornaz

Alessia Cornaz

Ostetrica MSF
Gli sguardi li capiamo tutti

Qui in Bangladesh il venerdì corrisponde alla nostra domenica. Manderò qualche mail e se non c’è troppa gente in stanza forse riesco a riposare un po’. È quasi mezzogiorno quando una delle ostetriche dello staff nazionale mi chiama per dirmi che è arrivato un uomo a chiederci aiuto. Sua moglie sta partorendo nel campo e ci sono delle difficoltà. “Il corpo è fuori ma la testa non esce” – dice all’interprete che mi riferisce preoccupata.

Non riescono a portarla al nostro centro e quindi ci chiede se possiamo andare con lui. Il tempo di ottenere le autorizzazioni, assemblare un kit d’emergenza basilare e siamo subito a correre dietro a quell’uomo. Per me è più semplice, ho un abbigliamento che mi permette di muovermi agilmente e delle buone scarpe che su questo terreno fangoso e scivoloso sono una salvezza. Per l’interprete e l’ostetrica dello staff nazionale, però, che indossano burqa e delle semplici infradito, non è affatto semplice.

Entrare nella loro realtà ti fa capire da subito quanto la situazione che queste persone stanno vivendo non sia umanamente sostenibile o accettabile. Mi colpisce la loro resilienza, il trovare – nonostante tutto – la voglia di andare avanti, la capacità di adattarsi e sopravvivere non avendo nulla. Penso a come reagiremmo noi europei se ci trovassimo nella stessa situazione, a come ormai dipendiamo dalla tecnologia per molte cose e a come saremmo persi senza le comodità di cui ci serviamo quotidianamente senza neanche rendercene conto.

Finalmente tra una salita e una discesa, e aver rischiato più volte di scivolare nel fango, arriviamo alla tenda. Entriamo ma il parto è ormai avvenuto. Il bambino non respira, non geme, non si muove. Una delle donne che sono venute ad aiutare la partoriente sta utilizzando un tubo di bambù per soffiare sul viso del neonato.

Siamo arrivati troppo tardi. Anche le nostre manovre rianimatorie sono inutili. Però possiamo ancora fare la differenza per la mamma, che al momento dell’uscita della placenta, inizia a sanguinare copiosamente.

Le donne presenti ci fanno spazio e, aiutata dalla mia ostetrica, riusciamo a fermare l’emorragia. Arginata l’emergenza inizio a guardarmi intorno, la donna ha partorito su delle stuoiette appoggiate sulla terra battuta. Le pareti e il tetto sono teli di plastica neri, sostenuti da strutture in bambù. Non ci sono finestre e l’unica porta è chiusa. Nell’angolo opposto, una delle donne ha acceso il fuoco per cucinare, rendendo l’aria irrespirabile. Mi bruciano gli occhi e inizio a tossire, e con me, tutte le altre.

Nella stanza non c’è praticamente nulla, solo qualche vestito appeso, e le stuoiette utilizzate per il parto sono in realtà i letti per tutta la famiglia. Ora c’è il tempo di parlarsi, di porre domande, di cercare di capire com’è andata, anche se ormai non farà nessuna differenza.

Copriamo il bambino, un bellissimo maschietto, e restiamo tutte in silenzio per un momento. Ci penserà l’imam a dargli l’addio in maniera ufficiale, ma abbiamo bisogno di salutarlo anche noi a modo nostro. La madre, nonostante tutto, ci ringrazia. Vorrei poterla portare al centro per tenerla sotto osservazione nelle prossime ore e assicurarci che l’emorragia non riprenda. Tuttavia, lei in quelle condizioni, non riuscirebbe ad affrontare il trasferimento.

Mi sono resa conto di quanto anche una cosa che dovrebbe essere semplice, come poter accedere alle cure mediche, in certi casi sia un’impresa troppo spesso insormontabile.

Portarla al centro vorrebbe dire metterla ancora più in pericolo. Ci rassegniamo a lasciarla lì, con tutta una serie di raccomandazioni alle altre donne e la promessa di tornare a cercarci in caso di bisogno. Una delle donne arriva da un’altra tenda con un catino, una brocca d’acqua e un pezzo di sapone per farci lavare le mani. Di nuovo penso a quante cose si diano per scontate, l’acqua corrente per esempio, e a quanto questi piccoli gesti si riempiano di un significato profondo. È il loro modo di ringraziarci e dimostrarci rispetto, condividere quel poco che hanno.

Per salutarsi non c’è bisogno dell’interprete, gli sguardi parlano una lingua che capiamo tutti.

 

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