Giuseppe De Mola

Giuseppe De Mola

Advocacy Manager MSF

La gestione italiana rischia di produrre altre Piazza Indipendenza

Giuseppe De Mola

Giuseppe De Mola

Advocacy Manager MSF
La gestione italiana rischia di produrre altre Piazza Indipendenza

Insediamenti informali di rifugiati come quello in via Curtatone – edifici occupati nelle grandi città, baraccopoli in aree rurali – non esistono soltanto a Roma, ma in tutta Italia, e sono l’effetto più evidente di un problema strutturale: l’assoluta assenza nel nostro paese di politiche e azioni concrete finalizzate a favorire l’inclusione sociale dei rifugiati.

Una persona che cerca protezione nel nostro paese ha diritto – secondo norme internazionali, a partire dalla Convenzione di Ginevra, comunitarie e nazionali – a un posto in un centro di accoglienza per tutta la durata della procedura di asilo, procedura che raramente si conclude prima di un anno.

All’ottenimento di un titolo di soggiorno permanente per asilo politico o protezione sussidiaria, il rifugiato viene invitato a lasciare il centro, spesso entro pochi giorni, senza ulteriori misure di supporto e accompagnamento all’integrazione. Uomini, donne e bambini.

Tale criticità è resa ancora più drammatica dalla natura dei centri di accoglienza all’interno dei quali le persone devono attendere lo svolgimento della procedura di asilo. Per quasi il 90% dei posti dell’attuale sistema di accoglienza, si tratta di strutture a carattere emergenziale (per esempio i cosiddetti “Centri di Accoglienza Straordinaria”), dove gli enti gestori, spesso improvvisati, non sono tenuti a fornire servizi finalizzati all’inclusione sociale dopo la conclusione del periodo di accoglienza: si parla qui semplicemente di corsi di lingua italiana, o di orientamento al lavoro e formazione professionale.

Il risultato è che all’uscita dai centri, i rifugiati si ritrovano autorizzati a permanere regolarmente sul territorio dello Stato, a essere titolari sulla carta di diritti assimilabili a quelli del cittadino italiano, ma a non avere di fatto alcuno strumento per un inserimento sociale.

Questo processo che dura da anni – da almeno la cosiddetta “Emergenza Nord Africa”, nel 2011 – sta creando situazioni come quella di via Curtatone e, più in generale, sta producendo sacche di marginalità che sarà sempre più difficile gestire. Le istituzioni preposte hanno deciso semplicemente di non agire, rimandando da un’elezione a un’altra l’adozione delle misure necessarie: il Piano Nazionale Integrazione previsto da una legge del 2014 non è stato mai messo in atto dal Ministero dell’Interno; le amministrazioni comunali si ostinano a non considerare queste persone come propri cittadini – alcune delle persone sgomberate in via Curtatone vivono a Roma dal 2004 – titolari di diritti fondamentali come il diritto a una casa o il diritto alla salute, continuano a ignorare persino l’esistenza degli insediamenti informali, salvo poi ricorrere a sgomberi forzati, non concordati con i residenti, in mancanza di qualsiasi soluzione abitativa alternativa, nemmeno per le categorie più vulnerabili, che non siano soluzioni last minute, temporanee e parziali.

L’adozione immediata di politiche nazionali in tema di integrazione dei rifugiati, una gestione compartecipata a livello locale tra istituzioni e concordata con i residenti e attori rilevanti della società civile, non andrebbero solo nella direzione di garantire ai rifugiati l’accesso ai diritti fondamentali, tema ormai sempre meno popolare.

I rifugiati eritrei ed etiopi di via Curtatone abitavano la palazzina dal 2013 e non si erano mai registrati episodi di violenza (il palazzo era costantemente oggetto di controlli da parte delle forze dell’ordine). Gestire tutto nella maniera cui abbiamo assistito negli ultimi giorni, ha portato a livelli di violenza che non s’erano mai visti. Violenza già manifestata. Violenza incubata per i tempi a venire.

(Articolo pubblicato su Huffington Post il 27 agosto 2017)

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