Le mani che hanno sconfitto l’Ebola

Ebola. Ebola con la E maiuscola: il solo nome porta subito alla mente pensieri. Il rischio, la paura, la speranza. immagini che richiamano morte, sofferenza, dolore, tanta paura; anzi: terrore.

Per me che lavoro e mi muovo da anni tra le malattie infettive, come infermiera, Ebola è una malattia di cui si sa poco, Ebola è un virus che causa una febbre emorragica, Ebola è Africa. Medici senza Frontiere mi fa sapere che quella è la mia destinazione: Africa occidentale e per la precisione Monrovia, la capitale della Liberia.

La prima emozione è l’eccitazione per la partenza. Finalmente torno in missione, è un anno e mezzo che sono ferma a Roma e torno nel paese da dove ho cominciato la “carriera” come operatrice di MSF. Era il 2011. Poi, siccome da mesi leggo, m’informo e seguo l’andamento dell’epidemia, comincio a realizzare che stavolta sarà diverso; troverò un’altra Liberia ad aspettarmi.

Le due settimane prima della partenza le passo tra dati, reportage, articoli scientifici e notizie sull’arrivo dell’Ebola nel mondo occidentale. I numeri che leggo su Monrovia non mi invogliano certo a partire: migliaia di casi, morti e un contagio che non si riesce a controllare. Un mio collega, Roberto, appena tornato, mi racconta che la situazione nel nostro centro di trattamento è disastrosa: la gente muore fuori dai cancelli perché non ci sono più posti.

E allora la paura per il rischio di contagiarmi comincia a insinuarsi tra le pieghe della mia pelle, ma la tengo a bada, cosciente del fatto che un po’ di paura a volte è sana e ti aiuta a conservare una sorta d’istinto di sopravvivenza. Il 15 ottobre parto da Roma, Fiumicino, con il mio zaino pieno di parmigiano, tarallucci, cioccolata, tanti calzini (scoprirò sul campo la loro utilità), blocchi di carta da disegno e tanti colori per i bambini ricoverati.

Monrovia, Elwa 3 e Chimo

Atterraggio senza problemi. Sono le 2 di notte, Monrovia dorme. Il giorno dopo, stanca per il lungo viaggio e disorientata da tutto ciò che di nuovo mi circonda, metto finalmente piede nel più grande centro per il trattamento dell’Ebola mai costruito: Elwa 3. È una struttura enorme, 240 posti letto tra qualche settimana; per ora ne utilizziamo 120 che sono tutti occupati al mio arrivo. Sono un’infermiera, ma qui il mio ruolo è quello di supervisionare lo staff liberiano che lavora con noi (più di 1000 persone) e fornirgli una formazione continua affinché i nostri pazienti possano ricevere un’assistenza di qualità. Cerco di trovare una mia dimensione tra le migliaia di persone che si muovono tra gli ingranaggi di questa “macchina” e cerco di scolpire nella mia mente due concetti  base, che da questo momento ripeterò a me stessa un’infinità di volte: “Stay safe and wash your hands”. Qui è necessario sentire i nostri limiti sia fisici sia psicologici: se non si è in grado di farlo si rischia il contagio o si rischia il burn out. Ed è con Chimo che sperimento i miei di limiti.

Chimo è uno dei tanti orfani che l’Ebola ha “messo al mondo”.  Lo ricoveriamo nella zona dei confermati, dove ci sono i pazienti risultati positivi al test per l’Ebola. Il suo letto si trova sotto una tenda che diventa una fornace quando il sole è allo zenit e qui siamo all’Equatore. Mi preparo a entrare nella “zona ad alto rischio”, di contagio naturalmente, indossando un tutone giallo, due mascherine, il cappuccio, il pesante grembiule di plastica, due paia di guanti e gli occhialoni simili a una maschera da sub. Il caldo estremo, i movimenti, la visuale limitata e il rischio non ci rendono la vita facile. Entro con due medici e un’infermiera liberiani e con il mio collega statunitense. Ci dirigiamo prima dai pazienti più gravi, quelli che manifestano i sintomi più pesanti della malattia: vomito, diarrea a volte misti a sangue. Chimo fa parte di questa schiera di pazienti. Quando ci fermiamo davanti al suo materasso sta dormendo, ma non è il sonno sereno di uno bambino; è un sonno inquieto, indotto dall’estrema fatica che l’Ebola ti trasmette. Respira male, Chimo.

Io e Dan, il mio collega, ci avviciniamo a lui. Vogliamo vedere se reagisce: cominciamo a chiamarlo per nome. Non si muove. Con difficoltà, dovuta al nostro “bizzarro” abbigliamento, ci chiniamo su di lui e proviamo a farlo sedere sul suo lettino. È infastidito, ma accenna un’apertura degli occhi. Spaventatissimo davanti alla visione di “marziani” gialli si dimena ma in fondo è un buon segno, significa che ha ancora delle energie. Chiedo all’infermiera liberiana di tranquillizzarlo, parlandogli con il suo accento (il mio inglese con accento fortemente italiano probabilmente sarebbe stato incomprensibile).

La disidratazione gli ha creato tanti piccoli tagli sanguinanti sulle labbra. Chimo deve bere, altrimenti come tanti altri non ce la farà. Nel frattempo ci accorgiamo che si è sporcato la tuta. Con tante precauzioni e dolcezza nei movimenti, perché Chimo prova dolore, lo puliamo. Ci sono tanti pazienti, ma lui è tra i più gravi ed è un bambino. Il nostro obiettivo è farlo bere, di continuo. Riuniamo tutto il nostro staff e spieghiamo chiaramente che tutti gli operatori che a turno entreranno dentro la zona ad alto rischio per le diverse attività, dovranno provare in tutti i modi possibili e immaginabili a dare acqua e sali minerali a Chimo. Chiediamo anche agli altri pazienti di aiutarlo, ma nella tenda, accanto a lui, ci sono troppi pazienti critici che non hanno nemmeno la forza di badare a se stessi. Comincio a provare un grande senso di frustrazione, perché il piccolo non beve abbastanza. Chimo non fa che peggiorare.

Mohamed, 16 anni

Dalla zona dei sospetti mi chiedono di trovare un posto nella zona dei confermati per un ragazzino di 16 anni, positivo al test: Mohamed. Il letto vicino a Chimo è libero. Mohamed cammina con le sue gambe, ha febbre, ma per ora non sembra stare così male come molti altri. Chimo dorme sempre. Non mangia. Mohamed ci dice che Chimo vive nel suo stesso villaggio. Questa coincidenza ci spinge a chiedergli di aiutarlo in nostra assenza e di avvertirci nel caso veda qualche peggioramento. Una mattina entro nella tenda di entrambi e trovo Chimo seduto. Mohamed è vicino a lui, indossa un paio di guanti e lo aiuta.  Il piccolo ha ancora brutti sintomi, ma si è mosso finalmente dal suo letto. Ringrazio Mohamed e gli spiego dove dovrà buttare i guanti e poi dove e come lavarsi le mani. Mi chiedo se non sia la vicinanza di Mohamed, una persona conosciuta, che stia aiutando il nostro piccolo paziente. La conferma di questa mia supposizione ce l’ho i giorni seguenti. Chimo riesce a stare seduto sul letto, da solo. Beve, da solo. Inizia a mangiare la zuppa. Si fida di Mohamed che lo accudisce come un fratello e lo fa molto meglio di noi operatori. La mia frustrazione viene domata da queste immagini.

Passano più di 2 settimane e cominciamo a vedere ogni giorno Chimo e Mohamed fuori dalla tenda, seduta su delle sedie, a godersi i pochi centimetri di ombra.

Decidiamo di ripetere il test dell’Ebola a Mohamed, poiché le sue condizioni cliniche sono ottime. Il pomeriggio il risultato arriva: NEGATIVO. Facciamo a gara tra di noi per dare la bella notizia al nostro paziente. Sembra contento. Gli diciamo che il giorno dopo potrà tornare a casa, nel suo villaggio; ci occuperemo noi di contattare qualcuno della sua famiglia. Il suo sorriso, però, sembra accennare una smorfia di disappunto: “Non me ne vado finché Chimo non guarisce. Torneremo insieme al nostro villaggio”. Il silenzio che cala tra noi medici e infermieri esprime tutta la commozione e il rispetto per Mohamed che in fondo non è che un bambino; un bambino coraggioso e generoso.

Il ritorno a casa

Passano altri giorni. Le gambe smagrite di Chimo riescono a tenerlo in piedi. Lui e Mohamed sono sempre insieme. Non hanno legato molto con gli altri bambini, ma sono riusciti a farsi forza a vicenda e gli altri pazienti lo sanno e sono proprio le grida di gioia dei pazienti e le loro danze impazzite a dare l’addio ai nostri due amici: anche Chimo è guarito. Si torna a casa insieme, anche se ad attendere Chimo nel suo villaggio non ci sarà più la sua famiglia d’origine.

L’uscita dalla zona ad alto rischio avviene attraverso la procedura della doccia. Questa è il passaggio che unisce due mondi e due tempi. Attraverso la doccia non solo si torna a casa, ma si torna alla vita, “si rinasce”, dicono alcuni pazienti.

Io e il mio staff medico ci prepariamo ad accogliere i nostri amici e per farlo organizziamo una platea di sedie di fronte alla doccia. Il primo a uscire è Mohamed. Dopo qualche minuto Chimo, che rimane attonito, stordito e incapace di accennare alcun sorriso di fronte a una folla festante e gioiosa. Gli regaliamo un pinguino di peluche; ne è spaventato all’inizio, ma poi comincia a tenerlo stretto sotto il suo braccio come fosse il suo migliore amico. La dimissione prevede un rituale finale, che è uno dei momenti più simbolici per il nostro centro e per MSF: tutti i pazienti guariti devono immergere la loro mano in un secchio di vernice e lasciare la loro impronta su un muro costruito all’entrata.

Le mani colorate di Mohamed e di Chimo sono ancora lì a ricordarci ogni giorno la loro storia, la loro forza, la loro solidarietà e la loro voglia di tornare a casa. Insieme.

Alessia, infemiera MSF, di ritorno dalla Liberia

La testimonianza è stata pubblicata su “Il Manifesto”, in data 12 dicembre 2014.

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