Lottare contro la disperazione

Lavoro per Medici Senza Frontiere da quasi 9 anni. Ho cominciato nel 2006 e da quel momento non ho più smesso di partire con loro: Niger, Haiti, Sudan, un progetto in Italia rivolto agli immigrati irregolari, Darfur, Bangladesh, Congo, Centrafrica. A ogni progetto la responsabilità e la fatica sono aumentate ma anche la crescita professionale e umana. Da qualche anno sono Capo Missione.

Ora mi trovo in Palestina, il primo Paese dove ho cominciato a lavorare come cooperante e dove sono ritornata nel 2012 in una calda giornata di settembre. Dopo un lungo peregrinare tra Paesi e crisi assai diverse mi sono ritrovata a tornare lì da dove ero partita, nella terra che da decine di anni vive un conflitto che non sembra finire, una terra contestata e agognata da tanti. Per molti, la terra dove tutto ebbe origine.

Nonostante lo scorrere della storia, il conflitto israelo-palestinese riesce a sopravvivere a tutto e a tutti: le comunità, da una parte e dall’altra del muro, si sono forgiate, e un po’ adattate, a sopportare il peso di questa responsabilità.

MSF è presente in Cisgiordania e Gaza dal 1989, fornendo assistenza medica e supporto psicologico e sociale alla popolazione palestinese colpita dal conflitto.

Nel distretto di Hebron

Io sono basata a Gerusalemme Est, la parte araba annessa da Israele nel 1967 non ancora riconosciuta dalla comunità internazionale. Nel villaggio, ormai sobborgo, di Bet Hanina sulla via che porta a Ramallah, MSF ha l’ufficio di coordinamento e da lì spesso mi sposto per visitare il progetto che copre le arie più contese di Gerusalemme Est (Silwan, Issawea, Monte degli Olivi, il campo rifugiati di Shufat) e il Distretto di Hebron.

Dopo Gerusalemme, Hebron è la città più ambita della Cisgiordania. La città è circondata da insediamenti israeliani che si sono estese su parte del distretto fino a dividerne il centro storico.

Sia a Gerusalemme Est che nel distretto di Hebron il progetto è composto da un équipe di psicologi e assistenti sociali che fornisco supporto psicologico e sociale a uomini, donne e bambini che hanno subito violenze legate al conflitto. Bambini e adolescenti incarcerati per aver tirato le pietre ai soldati israeliani, donne testimoni d’incursioni, soprattutto notturne, nelle proprie case ad opera di soldati che volevano arrestare mariti o figli.

Sono tante le storie che ogni giorno raccogliamo e a cui cerchiamo di dare un supporto per alleviare la sofferenza, per cercare di aiutare queste persone a risollevarsi dal trauma e affrontare le difficoltà di una vita oppressa dal conflitto e dalla poca speranza in un futuro migliore.

La storia di Mariam

Nelle campagne di Hebron, tra colline aride e rocciose, mi sono imbattuta nella storia di Mariam. Lei ha circa 20 anni e vive con il padre e il resto della famiglia (15 fratelli e le due mogli del padre poco più anziane di lei), in una grotta nel sud del distretto, in un ambiente ostile, umido e privo di qualsiasi servizio di base.
Il padre di Mariam è un pastore che non si allontana dalla sua terra per paura di perderla. La terra, infatti, non dista molto da un insediamento e spesso i vicini hanno cercato di convincerlo a lasciargliela.

La vita di Mariam è una vita difficile. Ai margini della società palestinese, segnata dal conflitto certo ma anche dalla chiusura socio-culturale e religiosa, Mariam non ha potuto accedere a un’istruzione di base, relegata dietro un velo scuro da cui si intravedono occhi brillanti ma ormai segnati da tante ingiustizie.

Mariam accoglie me e l’assistente sociale palestinese come un capo famiglia, ci fa sedere sul materasso dove la sera il resto della famiglia riposa e ci offre un bicchiere di tè preparato in una nicchia fumosa della grotta. E inizia a raccontare la sua storia, sempre circondata dai fratelli e dalle altre donne anche loro con il volto velato. Ci racconta del dolore provato quando lei e il padre sono stati picchiati dai soldati chiamati dai coloni, i vicini, in quanto stavano costruendo una cisterna d’acqua finanziata da un organizzazione internazionale ma posta in un’area sotto il controllo israeliano e, quindi, non autorizzata.

Mariam racconta della paura e della disperazione dovuta all’arresto del padre, cardine della famiglia, e del senso d’impotenza e smarrimento nel non sapere dove lui si trovasse. Racconta dell’ansia nel sentirsi responsabile per i suoi fratelli e sorelle senza avere i mezzi e le conoscenze per aiutarli. Della paura che quei soldati avessero potuto far ritorno e portar via anche lei.

Il senso d’impotenza non le impedisce, però, di cercare di proteggere il padre nel momento dell’arresto. Nonostante la disperazione, mentre ci racconta la sua storia, la sua figura rimane eretta e fiera al centro di quest’immagine di degrado e miseria. Prima di andare, le proponiamo di incontrare una delle nostre psicologhe che potrà aiutarla ad affrontare le sue emozioni. Mariam accetta con un sorriso degli occhi poi, dimenticando per un attimo le nostre diverse origini e differenze, ci salutiamo con un abbraccio stretto da donna a donna.

Mariam ha iniziato la terapia con la psicologa dopo poche settimane e l’esito è stato positivo. In seguito, si è trasferita a vivere nella cittadina di Yatta, a qualche chilometro di distanza dalla sua grotta, ha iniziato a seguire un corso di alfabetizzazione e si è sposata.

Cristina, capo Missione MSF nei Territori Palestinesi

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