Quanti mille ancora prima di vincere la battaglia contro Ebola?

Artisti per MSF

Il numero 1.000 a cosa vi fa pensare? Al gruppo di volontari che si unirono a Garibaldi…ai racconti de “le mille e una notte”, alla fine del mondo che nel 999 tutti aspettavano…, alla canzone “Se potessi avere mille lire al mese”…

Appena due giorni fa abbiamo festeggiato il trecentesimo paziente guarito nel nostro centro Ebola di Kailahun in Sierra Leone, e oggi sul registro delle ammissioni ho trascritto le informazioni del nostro millesimo paziente, entrato nel primo pomeriggio ma che sicuramente non uscirà che in un sacco bianco, visto che è arrivato in coma…Ieri abbiamo ricoverato una famiglia di 4 fratelli, il più grande di 12 anni, e il più piccolo di 6.Sorie è il nome del più grande, diventato il capo famiglia da quando il padre e la madre sono morti a causa dell’Ebola.

Sono arrivati in un’ambulanza dopo aver fatto 8 ore di strada infernale (le ho fatte anche io per raggiungere questo posto e se è stata un tortura per me che ho affrontato il viaggio in salute, non riesco a immaginare come abbiano fatto loro, stremati dalla malattia).Sorie è forte, quando ho aperto la porta dell’ambulanza, si è un po’ sorpreso di trovarsi davanti un marziano in tuta gialla, ma non ha avuto paura, anzi, era proprio lui che cercava di tranquillizzare i suoi fratellini…specialmente il più piccolo che urlava come un pazzo.

Katie (una simpaticissima infermiera inglese che ama la Toscana e Firenze…) li ha accolti con il solito pacchetto di biscotti e la bottiglietta d’acqua, e con la sua dolcezza li ha subito fatti sentire a loro agio, aiutata anche dai giocattoli che di regola diamo ai bambini al momento del ricovero (macchinine per i bambini e bambole per le bambine).

Il più piccolo era purtroppo anche il più malato e Sorie lo aiutava a bere e lo spronava a mangiare.La prima notte l’hanno passata bene, tutti insieme nella stessa tenda ovviamente, quando al mattino siamo entrati per il giro di controllo delle 8, dormivano ancora tutti, e i tre piccolini stringevano la macchinina così forte che era impossibile prendergliela…Sorie non aveva voluto il gioco, e allora a lui abbiamo dato una radiolina con la quale ascoltava la musica e le notizie del Paese.

Nel primo pomeriggio, mentre stavo per entrare nel reparto d’ isolamento (avevo già indossato la tuta da marziano), Katie mi comunica che è appena arrivata un’ambulanza con 7 pazienti, e così decido di andare a ricevere i nuovi malati e chiedo a Katie di entrare per la terapia. Lei non aspettava altro, si era già innamorata di quei 4 fratellini ed era contenta di poter passare un po’ di tempo con loro.

La tuta da marziani è una tortura indescrivibile…e poi gli occhiali che si appannano e che non ti permettono di lavorare…anzi…ti costringono ad uscire perché  è rischioso muoversi all’interno dell’isolamento se non si è in grado di vedere bene. Mentre faccio scendere l’ultimo dei 7 malati dall’ambulanza noto Katie che sta camminando verso la zona a basso rischio dove possiamo stare senza indossare la tuta. Mi meraviglio che sia già entrata nell’isolamento e abbia finito il giro della terapia in meno di un’ora ma poi ho pensato che forse è uscita prima per un altro motivo. “Katie, tutto bene?” Lei mi accenna uno sguardo facendomi “Sì” con la testa.

Mi sembrava rossa in viso, e pareva avere gli occhi lucidi, ma con gli occhiali che iniziavano ad appannarsi non riuscivo a capire bene…Continuo con il mio lavoro e dopo un paio di minuti decido di uscire prima che la mia maschera si appanni del tutto.

Passo a salutare Sorie e i suoi fratellini che non vedevo dalla sera precedente. Mentre mi avvicino alla tenda vedo uno di loro completamente coperto ed essendo caldo mi sono meravigliato che riuscisse a dormire con la coperta: Jamie (il nome del più piccolo) dormiva sì, ma di un sonno dal quale non ci si risveglia più…Un brivido di orrore mi è corso lungo la schiena e le braccia mi si sono paralizzate: mi trovo ammutolito di fronte a quella scena troppe volte vista e mi torna in mente una frase di una signora che durante le tre giornate del Festival di Internazionale a Ferrara mi ha detto “Certo che voi sarete abituati a vedere la gente morire!”. Quel giorno le risposi che alla morte non ci si abitua mai e che se un giorno mi dovessi accorgere di essermici abituato, ecco, quello sarà il mio ultimo giorno di lavoro!

Sorie mi guarda e non dice niente, ha gli occhi lucidi, gli altri due fratellini continuano a giocare con le loro macchinine mentre lui ammutolito non sa cosa fare. Mi avvicino e lo accarezzo sulla testa e gli dico che mi dispiace per Jamie, lui piega la testa e dice “Thank you”. Esco e vado da Katie, ma non posso abbracciarla come invece vorrei…quando si lavora in un progetto Ebola si impara anche questo, a non toccarsi mai, è una regola.

Lei mi guarda e piange e io faccio altrettanto. Rimaniamo un po’ in disparte a parlare, a consolarci a vicenda, ma non ci sono parole che possono darci sollievo per l’ennesima morte nel nostro centro.

Mille…quanti mille ancora prima che si riesca a vincere questa battaglia?

da Massimo, infermiere MSF in Sierra Leone

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