3 ottobre 2013.
368 persone morte al largo di Lampedusa. “Mai più morti così”, si disse allora.
E fu inaugurata l’operazione “Mare Nostrum”, un programma dedicato di ricerca e soccorso in mare gestito interamente dallo stato italiano che in tutto il 2014 trasse in salvo più di centomila persone.
Le ONG non avevano navi in mare, allora: non ce n’era bisogno. Oggi non c’è un programma pubblico – italiano o europeo – di ricerca e soccorso e alle ONG non viene consentito di salvare vite in mare.
Risultato: 8 morti al giorno sulla rotta del Mediterraneo centrale, 1 persona su 18 tra chi si imbarca in Libia per raggiungere l’Italia. Il tutto nel più assoluto silenzio. Di questo si è parlato a Lampedusa oggi, nel corso della commemorazione del 3 ottobre.

Un sopravvissuto di quel naufragio oggi è autista di autobus di linea in Svezia. Mostra le foto che continuano ad arrivare sul suo telefonino dalla Libia: persone stese a terra in fila, una accanto all’altra, mentre un’auto ci passa sopra con le ruote; persone cosparse di benzina e accese come falò. Tutto nel più assoluto silenzio.
Le persone che sono bloccate in Libia non chiedono più di venire in Europa, di avere un permesso di soggiorno o un nuovo passaporto nei nostri paesi: chiedono di essere evacuate dalla Libia, di essere portate in un altro luogo, qualsiasi luogo, purché la propria vita sia al sicuro.
Questo è l’appello rivolto dai sopravvissuti a una folla di ragazzi venuti da 15 scuole italiane ed europee. Tanti, ma non quanti avrebbero dovuto essere. Perché i fondi promessi dal Ministero (MIUR) per consentire ad altri ragazzi e ad altri insegnanti di venire a Lampedusa e partecipare alla giornata del ricordo, non sono mai arrivati.
Senza una spiegazione. Nel più assoluto silenzio. Si semina paura oggi. Si investe in paura per il futuro.