In Cisgiordania, a seguito dell’operazione “Muro di ferro” iniziata lo scorso gennaio, le Forze di sicurezza israeliane hanno svuotato e distrutto, in tutto o in parte, i campi profughi di Jenin, Nur Shams e Tulkarem, incrementando la pratica delle demolizioni di massa di abitazioni e altre strutture civili. Il 2 maggio, il Commissario generale dell’agenzia UNRWA ha dichiarato: “Si tratta di una punizione collettiva, categoricamente vietata dalla Quarta Convenzione di Ginevra. Prendendo di mira abitazioni civili senza un’immediata necessità militare, le azioni delle Forze di sicurezza israeliane portano a più di una semplice distruzione fisica: infliggono traumi e danni psicologici duraturi”. Anche la violenza dei coloni ai danni della popolazione palestinese, finalizzata all’espansione degli insediamenti, si è intensificata.
L’11 maggio, il Gabinetto di sicurezza israeliano ha disposto la ripresa della registrazione delle terre nell’Area C sospesa nel 1968, in quello che sembra essere l’ultimo atto per acquisire terre a favore dei coloni israeliani e consolidare l’annessione illegale della Cisgiordania.
Dal primo gennaio 2024 al 31 marzo 2025 si sono registrati: più di 600 palestinesi vittime delle violenze (981 dal 7 ottobre 2023 a oggi); 1.804 attacchi da parte di coloni israeliani che hanno causato vittime e/o danni alle proprietà; la demolizione di 2.199 strutture civili (869 abitazioni residenziali), delle quali 1.666 per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele e 463 durante le operazioni delle forze militari israeliane. Nello stesso periodo, le persone sfollate sono state 44.000.
L’8 maggio, le forze israeliane hanno fatto irruzione in tre scuole dell’UNRWA nel campo profughi di Shu’fat, a Gerusalemme Est, chiedendone la chiusura. L’UNRWA ha evacuato più di 550 studenti. L’8 aprile erano stati notificati gli ordini di chiusura per altre sei scuole gestite dall’UNRWA a Gerusalemme Est, che avevano interessato 800 studenti.
Al 10 maggio, sono stati registrati 880 attacchi a strutture sanitarie, di cui 546 a mezzi di trasporto, con 29 vittime. Delle 766 strutture sanitarie presenti nella Cisgiordania, solo 262 (34%) sono pienamente operative e 486 (63%) parzialmente funzionanti. Le restrizioni alla circolazione (ad esempio attraverso i checkpoint), soprattutto a Jenin, Tulkarem, Tubas e Qalqiliya, continuano a ostacolare le operazioni delle ambulanze e degli operatori sanitari, impedendo l’accesso dei civili palestinesi ai servizi sanitari essenziali.
Il 19 luglio 2024, la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) ha ribadito che la permanenza dello Stato di Israele nei Territori Palestinesi Occupati è illegale. Le preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza non possono in alcun modo prevalere sul principio del divieto di acquisizione del territorio con la forza. Il regime di restrizioni generalizzate imposto da Israele ai palestinesi nei Territori occupati costituisce una discriminazione sistemica (apartheid). Gli effetti delle politiche e delle pratiche di Israele e il suo esercizio della sovranità su alcune parti dei Territori occupati minano l’integrità territoriale e privano il popolo palestinese del godimento del diritto all’autodeterminazione.
Il “prima” e “dopo” la guerra non esiste: la testimonianza di Mirella Riccardi, psicologa e psicoterapeuta
In altri contesti di guerra, in Yemen ad esempio, molti pazienti e anche colleghi mi dicevano “Prima della guerra accadeva questo”, oppure “Quando finirà la guerra, farò questo”. Ricordo che lo scoppio della guerra aveva impedito a una mia collega di completare l’ultimo anno di psicologia all’università. Continuava a ripetere che, quando tutto sarebbe finito, avrebbe ripreso gli studi: resisteva in qualche modo una prospettiva di futuro, insieme alla speranza. A Nablus quel “prima e dopo la guerra” non esiste. Questa occupazione dura da quasi sessant’anni, la maggioranza delle persone l’ha subita sin dalla nascita: non è una finestra temporale con un inizio e una fine, ma qualcosa di permanente con cui convivere.
Un dolore insopportabile
L’occupazione non è solo il controllo fisico del territorio, ma il tentativo di occupare la dimensione culturale, simbolica e psichica della comunità e di ogni singolo individuo, denigrandola fino ad annientarla. Di fronte a un presente privo della dimensione futura, in cui anche il gesto più semplice sembra non dipendere dalla propria volontà ma da quella altrui, la reazione può essere la rabbia oppure la disperazione, la perdita di senso: non di rado, i nostri pazienti dicevano di sentirsi come presi in una morsa, dolorosa, continua e insopportabile.
“Se esco, mi accadrà qualcosa di brutto”
Per i bambini, la realtà dell’occupazione è l’unica vissuta, e dunque è “normale” che a un checkpoint si debba stare zitti e immobili. Dall’altra parte, la realtà esterna è percepita come ostile, ostile e precaria. I soldati che consegnano l’ordine di evacuazione comunicando che la casa sarà distrutta; i soldati che tornano la mattina presto, con le ruspe; i genitori che non sanno dove andare, perché hanno sempre vissuto lì e perché non hanno i soldi per trasferirsi in un altro posto: i bambini reagiscono a simili eventi con incubi notturni, crisi di ansia, trasaliscono a ogni rumore. E manifestano difficoltà a separarsi dalle famiglie, da una figura di riferimento, spesso la madre. Hanno paura di andare a scuola: “Se esco di casa, mi accadrà qualcosa di brutto”.
Il caffè di Nablus
Dalla terrazza della nostra clinica, osservavo Nablus che sembrava Napoli, dal Vomero i vicoli stretti che conducevano al centro storico. Qui, però, non sapevi mai se ci saresti arrivata al centro, o se un checkpoint ti avrebbe sbarrato la strada. Il tempo che trascorrevo con i miei colleghi palestinesi a sorseggiare caffè su quella terrazza – inconcepibile, tutto quel tempo, per i miei colleghi del nord– serviva a parlare dei pazienti, ma anche ad alleggerire le nostre frustrazioni per le demolizioni, i checkpoint e i colori diversi delle targhe, giallo per gli israeliani che apre tutte le strade, verde per i palestinesi che può chiuderle in ogni momento. Quelle frustrazioni che io ho provato sulla mia persona per un anno solo, e che invece condizionano i miei colleghi da tutta una vita. Nonostante la stanchezza, conservavano una passione instancabile per il loro lavoro. E mi vengono in mente i colleghi palestinesi morti a Gaza: di sicuro hanno nutrito la stessa passione. Fino alla fine.
Il percorso terapeutico come atto di resistenza
La passione dei miei colleghi per il lavoro era uno dei modi che avevano per conservare la propria identità e il proprio spazio di libertà e vitalità in tempo di occupazione. L’obiettivo dei nostri percorsi di cura era esattamente quello: identificare nel paziente un desiderio concreto tutto suo e soltanto suo, che potesse ridare un senso e una prospettiva di futuro alla sua esistenza, restituendo un senso di libertà individuale; un desiderio anche minimo, un’aspirazione che magari il paziente non pensava nemmeno di avere, scoperta durante il percorso terapeutico.
Una delle bambine che aveva assistito alla demolizione della sua casa, manifestava attacchi di ansia e di panico che la immobilizzavano. Durante le sedute, ha espresso il desiderio di fare la maestra: abbiamo iniziato a parlare del piacere della lettura e della scrittura, della gioia che nasce guardando i più piccoli imparare a mettere una parola dietro l’altra. Nel corso dell’iter terapeutico, un giovane ha scoperto il desiderio di acquisire gli strumenti per raccontare il mondo circostante e se stesso e ha iniziato a frequentare l’università. La scoperta di quei desideri e la volontà di realizzarli restituivano la fiducia in se stessi, il senso di poter decidere per sé e lo sguardo verso una dimensione futura.
Si tratta di percorsi complessi, lunghi e molto faticosi, i cui risultati non si raggiungono una volta per tutte, ma possono sempre essere rimessi in discussione. Accompagnato del terapeuta, il paziente esplora la propria storia individuale in cerca di un nuovo contatto con se stesso, un nuovo legame con la propria comunità, verso una rinnovata autodeterminazione e libertà intima, tutti elementi che l’occupazione vorrebbe cancellare: in questo senso, il percorso terapeutico è un atto di resistenza, resistenza psichica e anche politica.