Divisi siamo deboli contro l’HIV

Dal 20 al 25 luglio la comunità internazionale è riunita a Melbourne in occasione della Conferenza Internazionale sull’AIDS. L’obiettivo è considerare le strategie per sconfiggere la più grande pandemia dei nostri tempi. L’HIV uccide ancora 1,6 milioni di persone ogni anno, la maggior parte delle quali nei paesi poveri dell’Africa sub-sahariana. Se si vuole portare il trattamento antiretrovirale salvavita ai 16 milioni di persone che ancora ne hanno bisogno nel mondo, è fondamentale superare uno dei principali ostacoli che impedisce loro di accedere alle cure: la distanza dai centri sanitari dove possono ricevere i farmaci. I modelli di cura comunitari sono un modo per semplificare le modalità di accesso alle cure.

Nel distretto di Gutu, nella zona rurale dello Zimbabwe, l’introduzione del gruppo comunitario ART da parte di MSF ha cambiato in meglio la vita delle persone affette da HIV.

Quando Arnon Chipondoro, 68 anni, apprende da sua figlia Elisabetta che è sieropositiva, lo pervade un’ondata di sollievo. “Anch’io!”, dice abbracciandola. Aveva vissuto con il suo segreto per tre anni, un segreto che sospettava fosse condiviso da molti altri nel suo villaggio. In Zimbabwe, un adulto su sette vive con il virus.

Negli ultimi tre anni, Arnon è uscito furtivamente da casa alle 4 del mattino per intraprendere un lungo viaggio nella boscaglia sotto il cielo stellato. Lo ha fatto con discrezione, poiché se i vicini avessero visto che vi si recava con troppa frequenza, avrebbero cominciato a spettegolare sul fatto che avesse l’HIV. Arnon accendeva la torcia del cellulare solo per attraversare il fiume che separa il suo villaggio dalla città di Gutu, con i pantaloni tirati su, attento a non scivolare sulle rocce traballanti. “È la scorciatoia migliore”, dice. “Durante la stagione delle piogge avrei dovuto camminare lungo la strada, impiegando dalle cinque alle sei ore per fare il viaggio”.

Quando non pioveva, raggiungeva la clinica alle 7 di mattina…davanti a lui in fila c’erano solo le persone che avevano dormito sul portico dalla sera prima. Usciva da lì entro mezzogiorno per poi correre a casa e arrivare prima dell’imbrunire. “E questo era solo per prendere i farmaci, niente di più. Non vedevamo neanche il medico perché la gente come noi, che sta reagendo bene al trattamento, non ha bisogno di un check-up dopo ogni visita”, aggiunge la sua amica Varaidzo Chipunza. “Ma ora è diverso. La procedura è stata migliorata: quando arriviamo in clinica le nostre cartelle sono già pronte e non dobbiamo fare la fila”.

Varaidzo appartiene al Community ART Group (CAG) di Arnon, un modello introdotto da MSF nel distretto di Gutu in Zimbabwe un anno fa. All’interno di un CAG è solo un membro del gruppo a recarsi in clinica e prendere la scorta di farmaci per tutti. Ciò significa che oggi Arnon deve intraprendere il viaggio verso la clinica solo una volta l’anno, quando tutti i membri del CAG si recano insieme in clinica per la visita ambulatoriale annuale e per controllare che il trattamento funzioni correttamente. Le altre volte i suoi farmaci salvavita gli vengono consegnati nel suo villaggio, quasi alla porta di casa, da un altro membro del gruppo CAG. Non dovrà perdere un’intera giornata di lavoro nei campi, che vuol dire non dover scegliere tra la sua salute a lungo termine e la sua sopravvivenza economica a breve termine . Vuol dire anche essere parte di un gruppo che lo sosterrà qualora dovesse avere dei problemi con gli effetti collaterali delle pillole e al quale potrà parlare di come si vive con l’HIV. Il gruppo CAG gli ha tolto dalle spalle il peso del suo segreto.

Nel villaggio di Lowlands, Arnon, la figlia Elizabeth e altri tre hanno deciso che la loro malattia non deve essere vissuta in isolamento. Come atto di sfida nei confronti del virus, hanno chiamato il loro gruppo “Tashinga”, che nella lingua Shona significa “Abbiamo sofferto, ma continuiamo a lottare”.

Elizabeth apre un quadernetto pieno di appunti tracciati con una grafia chiara. “È la nostra Costituzione”, spiega. Regola numero uno: se un membro del gruppo ha un problema, gli altri devono aiutarlo. Regola numero due: la partecipazione alle riunioni di gruppo è obbligatoria. Regola numero tre: i gruppi di discussione sono riservati. E poi l’elenco continua, con le tutte le regole che i cinque hanno stabilito. Ci si preoccupa anche del denaro: chi va in clinica, riceve un dollaro da ogni membro per compensare la giornata di lavoro sprecata e per permettergli di concedersi uno spuntino in città. La solidarietà creata da un segreto condiviso crea profitto: poiché c’è sempre del denaro inutilizzato, ogni mese il gruppo lo aggiunge al capitale che prevede di investire nella realizzazione di un allevamento di polli in comune. 

Solo che non è più un segreto, non proprio. Il gruppo Tashinga ha già iniziato a parlare con gli altri nel villaggio della necessità di fare il test e di iniziare il trattamento, non solo per non ammalarsi o morire a causa del virus dell’HIV, ma anche per contribuire a ridurre il rischio di trasmissione del virus. La ricerca, infatti, ha dimostrato che quando il trattamento funziona bene, il rischio di trasmissione del virus ad altri viene ridotto fino al 96%.

“Da quando è stato introdotto il CAG, la mia vita è cambiata. Incontrare altre persone sieropositive mi ha fatto accettare il mio stato e ora posso parlarne ad alta voce” dice Varaidzo. Naturalmente, tutti i membri si conoscevano prima della creazione del loro CAG: in un villaggio rurale dello Zimbabwe non esiste l’anonimato. Avevano appreso le condizioni altrui solo per caso, incontrandosi alla clinica di Gutu. In realtà, dicono, ci sono almeno altre cinque persone sieropositive nel villaggio. “Non vogliono rivelare le loro condizioni, così si nascondono andando in un’altra clinica che è ancora più lontana”, dice Antony Chivanga, marito di Varaidzo. “Ma noi lo sappiamo! Alla fine si convinceranno a partecipare al nostro CAG”.

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