Intervista a Stefano capo missione MSF di ritorno dalla Repubblica Centrafricana

Intervista

La crisi in Repubblica Centrafricana è entrata nel suo secondo anno dal colpo di stato del marzo 2013. Anche se la natura della violenza è in parte cambiata e le linee del fronte si sono spostate, i combattimenti continuano. I civili sono le principali vittime di questi scontri tra le sempre più frammentate milizie anti-Balaka e i gruppi ribelli degli ex-Seleka, così come dei gruppi criminali che agiscono senza impunità. Nonostante le forze internazionali sul terreno stiano crescendo dal punto di vista numerico, non sono ancora in grado di proteggere la popolazione civile, che resta vulnerabile alle violenze, agli sfollamenti di massa, alla fame e alle malattie. Stefano Argenziano, capo missione MSF, è appena rientrato dalla Repubblica Centrafricana e ci racconta la sua esperienza in una delle più gravi crisi umanitarie del momento. 

Qual era la situazione in Repubblica Centrafricana quando sei arrivato a marzo?

Era una situazione di totale sconvolgimento per la popolazione musulmana del paese, costretta a spostarsi da Bangui e da città come Bossangoa, dove lavora MSF, in altre località all’interno o al di fuori del paese. C’erano frequenti attacchi sia da parte delle milizie cristiane che di quelle musulmane e le popolazioni assediate nelle enclave non potevano muoversi al di fuori delle zone di sicurezza.

La nostra équipe forniva assistenza medica nel quartiere PK12, un’enclave musulmana molto vulnerabile a Bangui. Una giornata era considerata “normale” quando nell’area non venivano tirate più di due granate. Il trasferimento delle persone verso zone relativamente sicure in molti casi risultava l’unica soluzione percorribile, ma in realtà si trattava di un fallimento per chi aveva il mandato di proteggere la popolazione.

Qual è stato l’impatto dell’attacco all’ospedale di Boguila il 26 aprile scorso, che ha causato la morte di 18 leader comunitari e di 3 membri dello staff MSF?

Quando l’ho visitata per la prima volta all’inizio di aprile, la popolazione di Boguila era sempre più esposta ad attacchi violenti dei gruppi ribelli locali o di quelli più organizzati degli ex-Seleka venuti da est. Ogni qualvolta si percepiva un rischio o si sentivano gli spari di avvertimento dei gruppi armati, la gente era così spaventata che fuggiva automaticamente dove pensava di essere al sicuro – nella boscaglia o all’ospedale di MSF. Così quello che era considerato un posto sicuro, una struttura sanitaria con il logo MSF, è diventata il teatro di un massacro.

Gli abitanti di Boguila e MSF sono rimasti profondamente scioccati da queste uccisioni. Il nostro staff ha provato tanti sentimenti, dal dolore alla rabbia. A Boguila la gente ha compreso la nostra decisione di fermare le attività mediche e chiedere una forte condanna da parte del governo provvisorio e dei leader dei gruppi armati. Molti di loro hanno poi denunciato gli attacchi, ma Boguila non è ancora sicura. Nonostante l’ospedale resti chiuso, abbiamo riavviato alcune attività mediche per curare almeno i bambini sotto i cinque anni affetti da malaria, infezioni del tratto respiratorio o malattie diarroiche nei nostri centri di salute.

Perché MSF ha iniziato a curare le persone sul nuovo fronte degli scontri a Grimari e Bambari?

Da aprile si è formato un nuovo fronte tra Grimari e Bambari, città distanti circa 80 chilometri nel centro della Repubblica Centrafricana, che viene usato come passaggio verso l’est e le sue ricche risorse naturali. Con una popolazione composta sia di musulmani che di cristiani, nell’area c’è anche un’alta concentrazione di combattenti anti-Balaka ed ex-Seleka, oltre alla presenza internazionale delle truppe francesi Sangaris e dell’Unione Africana.In quest’ultimo mese diversi villaggi intorno a Grimari e Bambari sono stati completamente bruciati e migliaia di persone sono state sfollate. A Bambari i recenti scontri hanno causato lo sfollamento di circa 20.000 persone all’interno della città stessa, tra cui parte della comunità musulmana che era stata evacuata dal quartiere PK12 di Bangui. Questo sfollamento forzato, che ha ridefinito la geografia demografica del paese, avrà conseguenze negli anni a venire.

La gente nascosta nella boscaglia sarebbe esclusa da ogni tipo di assistenza se non fosse per il nostro intervento. Abbiamo cliniche mobili che lavorano fino a sei ore ogni giorno per curare bambini a rischio di malaria o feriti a causa del conflitto. Per trasportare i feriti abbiamo avviato un sistema di ambulanze “rurali” usando i nostri veicoli e, per le strade dissestate, le nostre motociclette. Anche se siamo in grado di negoziare il nostro accesso attraverso i checkpoint di entrambe le parti in conflitto, non abbiamo ancora una garanzia di sicurezza per le nostre équipe e per i pazienti che trasferiamo. Trovarsi nel mezzo di una sparatoria è una preoccupazione costante.

Quali sono le più grandi sfide per la popolazione in CAR in questo momento?

Il paese è stato in crisi per anni. La cosa scioccante è che nel 2013 è iniziato il deterioramento di una situazione già disastrosa. Ho lavorato tre volte in Repubblica Centrafricana dal 2006 e sembra non ci sia fine alla sofferenza della popolazione. Ma poi ci sono i nostri pazienti. Quando sono stato l’ultima volta a Grimari, abbiamo trasportato un uomo all’ospedale di Bangui, aveva un taglio da machete nel collo e stava morendo. Sua moglie e il suo bambino di sei mesi sono venuti con lui. Circa tre settimane dopo l’ho visto dimesso dall’ospedale e sorridente. Sono queste storie umane a fare la differenza.

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