Trattare l’HIV/AIDS in Myanmar

 

Può descrivere le principali attività alla clinica Dawei?
Le équipe effettuano dalle 80 alle 90 visite giornaliere, talvolta anche 100. Forniamo cure gratuite, test per l’HIV/AIDS e la TBC e un programma per la prevenzione della trasmissione materno-fetale dell’HIV/AIDS. Seguiamo circa 3.000 pazienti sieropositivi con una media mensile di 30/40 nuovi casi che iniziamo a trattare con farmaci antiretrovirali (ARV). In Myanmar, l’accesso alle cure è molto difficile e questo porta i pazienti a venire a volte da molto lontano perché sono venuti a sapere che noi offriamo assistenza per l’HIV/AIDS. Inoltre, forniamo ai pazienti sieropositivi un supporto alimentare per rafforzare le loro difese immunitarie che comprende soia, sale, olio e fagioli.

La sua esperienza nel Myanmar è stata molto diversa dalla quella in Africa?
Sono rimasta sorpresa nel constatare quanto poco si sappia in questo Paese riguardo all’HIV/AIDS. La situazione è molto diversa in Africa, dove le percentuali si vanno stabilizzando, ma dove la gente conosce bene la malattia. In Myanmar, c’è ancora molta ignoranza sull’HIV/AIDS e, di conseguenza, la paura di essere stigmatizzati. È una società tradizionale e religiosa, dove la gente è restia a parlare liberamente della propria vita personale e sessuale che è un argomento tabù. In un simile contesto, è difficile parlare apertamente di questa malattia. Quando vengono a mancare la coscienza e la conoscenza di questa patologia e di come viene trasmessa, c’è il rischio del ritardo nella prevenzione e di una crescita esponenziale del numero di nuove infezioni.

Qual è l’obiettivo del progetto?
Il primo è quello di offrire assistenza e farmaci gratuiti di qualità, ma anche di dare supporto a coloro che hanno appena scoperto di essere sieropositivi e che credono che la loro vita sia finita, perché l’AIDS non è una sentenza di morte. Cerchiamo di porre l’accento sulle opportunità che hanno di prendersi cura di sé e di proteggere le loro famiglie. Il nostro scopo è quello di migliorare la loro conoscenza della malattia e di come viene trasmessa nonché far sapere loro che le cure sono disponibili. Il fatto che ci sia ancora poca conoscenza su questa patologia è di per se stesso una sfida.

A suo parere, cosa rende unico questo progetto?
Si deve al fatto che offriamo assistenza a una popolazione assai mobile: pescatori o poveri migranti con scarsa o nessuna istruzione. L’intervallo tra una visita e l’altra è lungo perché le persone vengono da lontano per poi aspettarsi di nuovo per periodi prolungati.
In condizioni normali, i pazienti dovrebbero farsi visitare ogni due o tre mesi, ma nel nostro contesto, dopo che i test sono stati completati, ritornano a volte nella clinica una volta ogni sei mesi. Lavorano in Malesia o in Thailandia e sono l’unica fonte di reddito per le loro famiglie. Nella stagione della pesca, partono su barche dove vivono fino a sei/sette mesi. Diamo loro le medicine necessarie a coprire il periodo di assenza e quando rientrano li teniamo sotto attento controllo.

Cosa le ha dato questa esperienza?
È molto gratificante percepire la riconoscenza dei pazienti per l’assistenza e l’attenzione con cui li seguiamo. Il nostro impegno non è soltanto medico, ma consiste anche nel fornire supporto morale, poiché molti pazienti si sentono in difficoltà e hanno perso la voglia di vivere. Vederli riconquistare fiducia e forza è davvero molto appagante. Come responsabile medico, ho acquisito una visione completa che non avevo quando ero dottore in una clinica privata.

 

Calorine Mekiedje, specializzata nel trattamento per l’HIV/AIDS ha lavorato in Mozambico, Camerun e in molti altri Paesi. Attualmente è responsabile medico alla clinica Dawei nel Myanmar meridionale, dove MSF tratta l’HIV/AIDS e la TBC dal 2000.

Condividi con un amico