Accogliere significa prendersi cura e restituire dignità

È stato un privilegio essere qui in questa zona di frontiera, sul molo della banchina di Pozzallo ad accogliere e soccorrere tutte le persone che affrontano il deserto del Sahara e il Mar Mediterraneo, alla ricerca di qualcosa di migliore. Nelle mie giornate di lavoro, c'è la bellezza dell’incontro con l’altro ma, a volte, anche la frustrazione di non trovare le risposte adeguate.

Ho incontrato uomini, donne e bambini, e ne ricordo ancora i volti.  Durante i ricoveri in ospedale, di alcuni di loro noi siamo diventati automaticamente “famigliari adottivi”, siamo stati la voce dei nostri pazienti. Perché accogliere non è solo dare un posto dove poter dormire e mangiare, è prima di tutto prendersi cura. È dare dignità a queste persone, trattandole per quello che sono. Le ho viste arrivare scalze, senza nulla, ma portando con se tanta speranza e determinazione e per questo dobbiamo dargli la possibilità di costruirsi una nuova vita. Bussavano alla porta dell’ambulatorio all’interno del CPSA, dove in tanti vedevano in noi non solo medici, infermieri, mediatori ma  persone amiche disposte ad ascoltare e curare. Venivano in ambulatorio anche per riposare perché li, si sentivano protetti e al sicuro. In questi mesi, ho incontrato prima di tutto persone che scappavano. Una donna mi ha sussurrato: “Andate a vedere cosa c’è in Libia, così capirete perchè veniamo qui”.

Negli ultimi mesi abbiamo notato un aumento dei traumi e delle ferite riportate, come le fratture in seguito a percosse e aggressioni subite in Libia, o violenze soprattutto sulle donne. Donne nigeriane e somale arrivate sole. Dolci, forti e coraggiose. Nei loro occhi ho visto la gioia di essere arrivate in Europa, ma sui loro corpi i segni della violenza subita in Libia.

Quest’anno sono arrivati anche tanti minori stranieri non accompagnati, troppo numerosi per una ricollocazione rapida in strutture adeguate, ci hanno detto le istituzioni. Mi ricordo di Ismael, 16 anni, capelli ricci e occhi grandi. Si è presentato in ambulatorio con un’escoriazione alla gamba, gli ho chiesto se parlava inglese. Mi ha risposto con sguardo fiero e deciso “Parlo inglese, arabo, tigrigno e amarigna”. Gli ho chiesto cosa c’era che non andava. Mi ha fatto vedere il piede fasciato, sotta la benda una piccola escoriazione. Un pretesto per venire in ambulatorio. Ismael, insieme ad un gruppo di minori, dopo essere rimasti a lungo nel centro avevano cercato di scappare. Gli ho chiesto il perchè. “Che cosa succede al tuo cervello se vedi davanti ai tuoi occhi uccidere tuo padre, tuo zio, tuo nonno e la tua famiglia. Io sono scappato da un paese in guerra, l’Eritrea. Sono andato in Etiopia e poi in Libia. La Libia è veramente un brutto paese. Mi hanno picchiato, guarda sulla mia testa le cicartrici. Adesso sono qui in Italia e il governo italiano che cosa fa, mi tiene chiuso qui a mangiare e dormire. Ma io voglio uscire, voglio andare a scuola per studiare, per leggere, imparare e conoscere”.

In questi mesi ci siamo confrontati spesso con un sistema di accoglienza dove i limiti strutturali, o organizzativi, come la mancanza di posti soprattutto in strutture protette ha avuto conseguenze dirette sulla salute dei nostri pazienti. Ultimamente, il caso più emblematico è stato quello di Fatima. È arrivata in una notte fredda e buia insieme ad altre 700 persone, portate dalla Bourbon Argos il 6 novembre a Pozzallo. È uscita dalla nave tra gli ultimi, aveva il capo coperto e un lungo vestito. L’abbiamo accompagnata in ambulatorio. Era sola. Ci siamo subito resi conto della gravità. Abbiamo capito che aveva subito violenze ripetute durante il suo viaggio nel deserto. Inoltre, aveva subito anche una mutilazione genitale. L’abbiamo segnalata agli organi di competenza per l’inserimento in una struttura adeguata e protetta. Fatima all’inizio ha accettato di restare nel CPSA, poi ha visto che tutti i suoi connazionali venivano trasferiti, e col passare dei giorni si è destabilizzata. La lunga permanenza all’interno del CPSA e la situazione di sovraffollamento del centro ha aggravato il suo precario stato di salute mentale e reso necessario il ricovero obbligatorio in una clinica psichiatrica. Pochi giorni fa, dopo svariate segnalazioni, è finalmente arrivata la comunicazione ufficiale che Fatima verrà trasferita in una struttura di accoglienza protetta. Fatima ha rappresentato una sconfitta e un fallimento, abbiamo fatto un lavoro di team per evidenziare la necessità di un ricovero immediato, ma le risposte delle istituzioni sono state tardive e questo ha avuto una ripercussione negativa anche sulla sua salute mentale.

È importante restituire dignità a queste persone costrette a fuggire, poiché la fuga rappresenta a tutti gli effetti una seconda vita. E dopo ogni arrivo al porto, il trasferimento verso il prossimo centro di accoglienza diventa un momento importante che fa brillare gli occhi di chi sale sull’autobus. Sarà un’altra illusione?

Le partenze mi hanno sempre emozionato, soprattutto quelle di notte, perché anch’io salivo sull’autobus per dare gli ultimi saluti o consigli medici. E io pensavo chissà se questi occhi continueranno a brillare o sarà un’altra illusione. Ogni volta che vedevo le persone partire, io partivo con loro, era come se partisse una persona cara, alla quale augurare “Good Luck”.

Rita, medico MSF, nel Centro di Primo Soccorso e Accoglienza a Pozzallo

Leggi il comunicato stampa "Pozzallo: MSF annuncia l'uscita dal CPSA"

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