Lavoro con Medici Senza Frontiere da quindici anni. In Siria sono stata due volte: la prima nel 2013, per quattro mesi, nella zona di Atimah, nel nord-ovest del Paese, a venti minuti di auto dal confine con la Turchia; la seconda volta, nel febbraio del 2023, subito dopo il terremoto.
2013: il conflitto e gli ingressi clandestini dalla Turchia
Per arrivare ad Atimah, entravamo clandestinamente dalla Turchia: il governo di Bashār al-Assad non ci autorizzava a lavorare nel Paese, soprattutto in un’area controllata da quelli che definiva “terroristi”. In teoria, secondo il Diritto Internazionale Umanitario, saremmo stati pienamente legittimati ad accedere alle popolazioni colpite dal conflitto in quell’area, ma nei fatti entrare di nascosto, col consenso tacito della polizia turca alla frontiera, era l’unica opzione e all’epoca decidemmo di farcene una ragione.
Mi occupavo di diciassette campi di sfollati fuggiti da altre zone del Paese per sottrarsi agli scontri: oltre a fornire assistenza sanitaria di base, distribuivamo tende e altri beni di prima necessità e garantivamo il trasporto e il trattamento dell’acqua, la costruzione e la manutenzione di docce e servizi igienici e la raccolta dei rifiuti. Ogni campo era come un villaggio, con una persona responsabile, una specie di sindaco. Montavamo le tende sotto gli ulivi.
Tra i nostri pazienti, ve n’erano tanti con gravi ustioni, non solo per le conseguenze dirette della guerra, ma anche perché la gente, per riscaldarsi, utilizzava delle stufe a legna che alimentava con del gasolio versato da taniche di plastica. Le parti del corpo più colpite erano il volto, le mani e il torace: molte delle persone ustionate erano donne e bambini.
L’anno prima, MSF aveva aperto ad Atimah un’unità ustionati. In quegli anni, gli ospedali erano obiettivo sistematico degli attacchi aerei, per questo motivo avevamo la sala operatoria dentro una villetta e dei container per le degenze. Io dormivo dentro la villetta, che tremava tutta a ogni bombardamento. Per riscaldarmi, utilizzavo una di quelle stufette a legna che provocavano le ustioni che cercavamo di curare.
Un giorno mi trovavo nei pressi del valico di Bab al-Hawa, da dove transitavano gli aiuti umanitari dalla Turchia, quando hanno iniziato a lanciare barili bomba: erano dei fusti utilizzati per il petrolio carichi di esplosivo e di pezzi di metallo che, allo scoppio, schizzavano intorno distruggendo ogni cosa. In qualche modo sono riuscita a rientrare alla base, incolume.
Ero una delle poche persone che riusciva a muoversi tra i campi, per incontrare i vari responsabili e organizzare con loro le attività. Nei campi si trovavano diversi gruppi dell’opposizione, inclusi i qaedisti: con tutti negoziavamo la nostra presenza lì e le modalità di accesso alle persone più vulnerabili. Non mi sono mai sentita in pericolo: mi sentivo protetta dalla stessa gente che viveva nei campi.
Il 2 gennaio 2014, cinque operatori internazionali di MSF sono stati rapiti in una zona limitrofa a quella dove operavo. Conoscevo alcune delle ragazze rapite: avevamo attraversato insieme clandestinamente il confine con la Turchia. Tutto lo staff internazionale è stato costretto a lasciare la Siria. Siamo partiti di nascosto, come dei ladri, lasciando i nostri colleghi siriani a continuare il lavoro. Sono stata una degli ultimi a partire. Cosa ricordo di quei giorni? L’angoscia. Fortunatamente i miei colleghi sono stati rilasciati tra aprile e maggio di quello stesso anno.
Il nuovo incarico in Siria
Nel 2021, sono diventata responsabile medico per le attività della sezione francese di MSF in Siria. Lo staff internazionale non era ancora rientrato nel Paese per motivi di sicurezza: operavamo in remoto da Gaziantep, in Turchia.
Appena assunto il nuovo incarico, ho subito pensato a come potenziare i servizi dell’ospedale di Atimah, ma mi sono subito scontrata con le restrizioni di budget della mia organizzazione.
A un’assemblea generale di MSF a Parigi, nel 2022, ho alzato la voce per dire che avevamo dimenticato la Siria. Nonostante in quel periodo fosse la seconda crisi umanitaria al mondo dopo lo Yemen, nessuno ne parlava più, nemmeno dentro MSF: “Guardate che i siriani sono lì e si aspettano molto da noi, abbiamo delle responsabilità nei loro confronti”. Il budget per la Siria è stato incrementato e io ho iniziato a pianificare gli interventi per far diventare quello di Atimah un ospedale vero.
Di nuovo “a casa”
Nel febbraio del 2023, un terremoto devastante ha colpito la Turchia e la Siria. Finalmente siamo stati autorizzati a rientrare in Siria per soccorrere le popolazioni colpite.
Il 27 febbraio, ho attraversato il valico di Bab al-Hawa e ho raggiunto Atimah. Per me è stata un’emozione fortissima: sai quando un migrante torna a casa dopo una lunga assenza? Dopo dieci anni, ho visto la gente che viveva ancora nelle tende, che ancora usava il gasolio non raffinato per riscaldarsi, ho visto bambini che soffrivano ancora il freddo e la fame.
Uno dei sindaci dei campi è venuto a cercarmi quando ha saputo della mia presenza ad Atimah. Dieci anni prima, avevamo litigato ferocemente, voleva che fossi allontanata dai campi, non aveva alcuna considerazione di me, forse perché ero una donna. L’incontro è stato commovente e lui si è rivelato una delle persone più buone che abbia mai conosciuto in Siria.
Prima del mio ritorno ad Atimah, i colleghi, un po’ per scherzo un po’ seri, mi dicevano: “Non ti fare illusioni, l’ospedale non esiste più: davvero pensi che tutto stia funzionando secondo le indicazioni che impartivi a chilometri di distanza?”. L’ospedale, invece, era al suo posto e quando sono entrata in sala operatoria, ho visto i miei colleghi siriani applicare strettamente i protocolli medici concordati a distanza durante la mia permanenza in Turchia. Alle volte bisogna anche fidarsi del prossimo e smettere di pensare che soltanto noi operatori internazionali possiamo fare le cose nella maniera giusta!
Ho messo la prima pietra del nuovo ospedale di Atimah: quando è stato ultimato, il 20 settembre 2024, avevo già esaurito il mio mandato e avevo lasciato il Paese.
Oggi, quello di Atimah è l’ospedale di riferimento per tutte le persone ustionate del nord-ovest del Paese, forse dell’intera Siria. Nel 2024, ha assistito 8340 persone con gravi ustioni, una media di ventitré pazienti al giorno. Anche grazie all’utilizzo delle stampanti 3D, riusciamo a ottenere ottimi risultati nel trattamento delle ustioni al volto e nella ricostruzione del cuoio cappelluto. Nel 2013 non era così: li vedi ancora in strada i bambini che abbiamo curato in quegli anni che sono diventati adulti e hanno il corpo ricoperto da cheloidi. Adesso stiamo cercando di ricontattare i nostri vecchi pazienti per vedere se si può ancora intervenire, con i nuovi strumenti a nostra disposizione, per rimodellare almeno i loro visi, le loro mani.
Allo stesso tempo, stiamo collaborando con le autorità sanitarie siriane per creare una rete di centri e reparti ospedalieri specializzati nel trattamento delle ustioni in tutto il Paese, formando il personale medico locale e donando le attrezzature necessarie.
Il futuro
La salute mentale sarà uno dei grossi temi da affrontare nei prossimi anni in Siria. Avevamo un servizio di sostegno psicologico a distanza, coordinato da una nostra collega siriana. La gente ci chiamava a quel numero e ci chiedeva aiuto per uscire dalla depressione, ma soprattutto per affrontare i disturbi da stress post-traumatico causati non soltanto dalla guerra, ma anche dal terremoto del 2023.
I siriani hanno sempre conservato la speranza: “Guarda che ci rimetteremo in piedi, capito?” – continuano a ripetermi. E sono sempre dell’idea di tornare alle loro case. I colleghi che lavoravano a Idlib, originari di Damasco, stanno tutti rientrando. Ieri mi ha scritto uno di loro comunicandomi che sta iniziando a lavorare per il Ministero della sanità. E ci sono diversi medici che ho conosciuto a Gaziantep che lavoravano con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, con l’UNICEF, che stanno tornando per lavorare anche loro in strutture sanitarie pubbliche. Vogliono ricostruire la Siria, c’è questo desiderio di fare qualcosa per il proprio Paese: “Non è la migliore situazione quella in cui ci troviamo, ma peggio di quando c’era Assad non potrà mai essere”.