Giulia Moggio

Giulia Moggio

Ginecologa MSF

Essere operatore MSF: la mia missione in Afghanistan

Giulia Moggio

Giulia Moggio

Ginecologa MSF
Essere operatore MSF: la mia missione in Afghanistan

Lavorare per MSF significa soprattutto mettersi in gioco, a livello professionale e umano. Significa fare il proprio lavoro al meglio in contesti di povertà, guerra, ingiustizia, mantenendo la totale imparzialità e avendo come unico obiettivo il bene del paziente che ci si trova di fronte. Significa fare vita di comunità con gli altri espatriati, condividendo ma ritagliandosi i propri spazi. Significa adattarsi alla cultura del paese, anche se questa stride con alcune nostre abitudini e idee. Significa mettersi di fronte alla scomoda realtà di essere dei privilegiati.

Mi chiamo Giulia e ho lavorato come ginecologa nell’ospedale materno-infantile di Khost, nel sud est dell’Afghanistan. La mia missione è durata 3 mesi. In ospedale ho svolto il mio lavoro di ginecologa, affiancato e supervisionato le ginecologhe nazionali e tenuto delle formazioni teoriche e pratiche per le ostetriche.

Oltre le aspettative

È stata un’esperienza che ha superato le mie aspettative e durante la quale ho avuto spesso la sensazione di trovarmi al posto giusto. Ho la testa e il cuore pieni di ricordi positivi: dai sorrisi riconoscenti delle pazienti arrivate in condizioni critiche, al primo pianto di quel neonato salvato, dagli incredibili miglioramenti che in 3 mesi ho visto fare alle ostetriche locali, ai loro forti e sinceri abbracci, dal supporto costante degli altri compagni di avventura, a tutto quello che ho imparato dalla vita in ospedale e dai racconti di vita degli altri operatori espatriati.

Non mancano le difficoltà e gli aspetti negativi della missione.

Un aspetto negativo di Khost, dove ho svolto la mia missione, è l’impossibilità di uscire per motivi di sicurezza: 3 mesi di “reclusione” spesi esclusivamente tra ospedale e compound possono essere molto pesanti.

Così come può essere difficile adattarsi alla rigida cultura islamica che vige nella regione: lavorare sempre con il velo e vestire lunghe uniformi che non lasciassero scoperta nessuna parte del corpo, chiedere il consenso per qualsiasi procedura chirurgica sulla donna al marito o a un membro maschile della famiglia, la rigida segregazione dei sessi, l’estrema pudicizia delle pazienti che rende difficile anche solo una visita ginecologica.

Un’altra sfida è fare fronte al carico di lavoro dell’ospedale: in un mese ci sono circa 2000 parti e questo significa sale travaglio, sala parto, sala operatoria e reparto sempre pieni, le urgenze e le emergenze costanti. Pretendere di avere tutto sotto controllo è una follia, ma questo apre la porta a un vero gioco di squadra e alla responsabilizzazione dello staff nazionale.

Ho deciso di partire con MSF perché avevo la garanzia di poter lavorare per un’organizzazione davvero imparziale e coerente, molto organizzata e pertanto in grado di garantire maggior sicurezza agli operatori e di prestare standard di cure molto alti. Partirei di nuovo, assolutamente sì. Questa missione mi ha fatto riscoprire il significato profondo del mio lavoro, mi ha riacceso dentro la speranza di poter cambiare qualcosa, nel mio piccolo.

A chi vorrebbe partire con MSF raccomanderei solo due cose: indipendenza e adattabilità. Indipendenza a livello lavorativo, e vale soprattutto per lo staff medico: bisogna arrivare in missione già capaci ed assolutamente autonomi nel proprio lavoro perché non si può essere utili se non si hanno solide competenze professionali (e di cose da imparare in contesti così diversi, ce ne sono già moltissime!). Adattabilità e resilienza sono necessarie per affrontare la vita in una realtà comunque di guerra, di pericolo e di alti livelli di stress. Per il resto, basta tenere occhi e cuore ben aperti per ritrovarseli pieni traboccanti a fine missione. Buona fortuna!

 

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