Domenico Spagnolo

Domenico Spagnolo

Psicologo MSF

Forse dovrei iniziare mettendo ordine ai pensieri, ma Gaza non concede ordine.

Domenico Spagnolo

Domenico Spagnolo

Psicologo MSF
Forse dovrei iniziare mettendo ordine ai pensieri, ma Gaza non concede ordine.

Gaza è un luogo che rompe le categorie, anche quelle cognitive che uno pensa di padroneggiare. Due settimane qui e già mi accorgo che il linguaggio è insufficiente. E questo fa sorridere, in modo un po’ crudele, considerando quante volte abbiamo predicato che “la realtà è costruita dalla narrazione”.
Sì, certo. Poi arrivi qui e ti rendi conto che ci sono realtà che non ci stanno da nessuna parte, nemmeno a spintoni.

Oggi, nel reparto pediatrico dell’ospedale da campo, ho visto due bambine di tredici anni. Entrambe ustionate nello stesso “incidente”, entrambe han perso pezzi di famiglia (la prima madre padre e due fratelli, la seconda la madre) entrambe reduci da una procedura che qui è routine ma che routine non sarà mai: la DUGA. Dressing Under General Anaesthesia. Una medicazione eseguita in anestesia totale perché altrimenti il dolore sarebbe semplicemente insostenibile.

È già assurdo così. Ma lo diventa ancora di più quando pensi che quelle bambine ci vanno come se fosse un appuntamento settimanale dal dentista.
La prima, questa mattina, dopo la DUGA, aveva un dolore così intenso che chiedeva ai medici di lasciarla morire. Lo diceva con la semplicità con cui un adulto potrebbe chiedere “per favore basta, non ce la faccio”.
La seconda, la sua amica, le è rimasta accanto. Le due hanno perso quasi tutto, famiglia compresa. Eppure una parlava con me del futuro, di come vuole diventare traduttrice. Sorrideva mentre prendeva in giro il mio tentativo di dire qualcosa in arabo.
L’altra no. L’altra aveva ancora le lacrime negli occhi e un silenzio che pesava come un macigno.
E allora la domanda arriva, inevitabile:

Ma com’è possibile che accettiamo tutto questo?
Non come operatori, non come ONG, non come individui. Come specie. Abbiamo migliaia di anni di storia, filosofie, religioni, guerre che avrebbero dovuto insegnarci qualcosa. E invece eccoci qua, ancora a guardare bambini che implorano di morire perché il dolore è troppo. C’è qualcosa di stonato, di osceno, di profondamente ingiusto. Un’ingiustizia che non è metaforica, è fisica, la senti negli occhi, nel respiro. Ti segue.

Il pronto soccorso è una collezione di tutto ciò che non dovrebbe accadere a un essere umano. Fissatori esterni, amputazioni, ustioni estese.
Noi cerchiamo di farli ridere. A volte funziona. A volte è solo un tentativo disperato di costruire un frammento di significato, un minuscolo micro-senso nel mezzo del caos.
Non è molto. Ma rifiutarsi di provare sarebbe peggio.

E poi c’è la distruzione. In tv sembra un film d’azione, uno di quelli con effetti speciali un po’ esagerati. Dal vivo invece ti mozza il fiato. In Ucraina almeno la gente poteva scappare. Qui no. Qui la trappola è totale.
Tende ai piedi delle macerie, bambini scalzi che camminano nella polvere, e a dieci metri un mare bellissimo che sembra prendere in giro tutto. Come se dicesse: io sarei qui, per fare da sfondo alla vita. E invece.

Forse sto scrivendo tutto questo perché non voglio che resti a marcire nella testa.
Forse perché l’ingiustizia, se non la nomini, vince.
Forse perché il costruttivismo funziona finché non incontri l’indicibile, e allora serve almeno provare a dirlo, anche male.
Non so se servirà a qualcosa.
Ma tacerlo sarebbe peggio.