Alice Frongia ha lavorato con Medici Senza Frontiere in Ucraina, per più di un anno, come responsabile medico. Qui ripercorre le fasi dell’avvio dei programmi delle ambulanze e delle cliniche mobili che ancora oggi costituiscono due delle componenti principali dell’intervento di MSF in Ucraina, soprattutto in prossimità del fronte, nelle regioni di Donetsk, Kharkiv, Mykolaiv, Zaporizhzhia, Dnipropetrovsk, Kherson e Sumy.
A Kostjantynivka (nel distretto di Kramators’k) si trovava il primo ospedale civile dopo la linea del fronte: decidemmo di supportare il reparto di chirurgia. Il team si sistemò in un piccolo albergo abbandonato, a pochi metri dall’ospedale.
I medici ucraini, militari e civili, erano altamente specializzati in chirurgia di guerra, per questo motivo decidemmo di reindirizzare parte delle nostre risorse nel potenziamento del pronto soccorso: quello di Kostjantynivka era un ospedale piccolo, non attrezzato per far fronte a potenziali arrivi di massa di feriti.
Ambulanze
L’altra decisione fu di rafforzare il sistema pubblico delle ambulanze, per trasportare i feriti dal fronte ai primi presidi medici dietro le linee e, da qui, agli ospedali di secondo e di terzo livello, soprattutto a Dnipro.
Oltre a quelle standard, avevamo ambulanze attrezzate per la terapia intensiva: queste ultime rivestivano un’importanza fondamentale perché, con tutta quella parte del Paese dov’era quasi impossibile operare sul posto, per motivi di sicurezza, mancanza di attrezzature o carenze del personale, bisognava spesso trasferire pazienti in condizioni critiche in altre città.
Gli ospedali ci contattavano direttamente per richiedere un’ambulanza: avevamo creato una grossa rete di riferimento visitando gli ospedali della zona e lasciando a tutti i nostri contatti. Raggiungemmo anche un accordo con il sistema sanitario nazionale: affidarono a noi la quasi totalità del trasporto con la terapia intensiva, concentrando le proprie risorse sulle ambulanze neonatali, per le quali noi non avevamo risorse umane e materiali specialistiche.
Le richieste di trasporto erano selezionate in base a due criteri: l’urgenza medica e le condizioni di sicurezza. Io autorizzavo il trasporto rispetto al razionale medico, ma l’ultima parola spettava al team addetto alla sicurezza, che raccoglieva tutte le informazioni disponibili sul percorso, su quale fosse il tragitto migliore e le possibili vie alternative, le tempistiche per andare e tornare indietro, se nell’area fossero in corso operazioni militari. Una volta autorizzata la partenza, l’ambulanza veniva seguita costantemente attraverso un’applicazione di tracciamento e localizzazione GPS che monitorava gli spostamenti di tutte le ambulanze.
Comunicavamo tutti i nostri movimenti all’esercito ucraino (procedure di “deconfliction”), che più volte ci ha informati di possibili operazioni militari o bombardamenti nelle aree interessate dagli spostamenti delle ambulanze. Riguardo la condivisione di informazioni con i russi, non so dire bene. Almeno nel periodo della mia permanenza in Ucraina, le nostre ambulanze non sono state oggetto di attacchi diretti, né sono rimaste coinvolte in altri incidenti di sicurezza.
Cliniche mobili
Nel corso di una guerra, l’assistenza sanitaria di base è uno dei primi servizi che viene meno: ciò era soprattutto vero in prossimità del fronte e nelle aree occupate dai russi e successivamente riconquistate dagli ucraini con la prima grande controffensiva.
Non appena un’area veniva ufficialmente dichiarata “libera” dagli ucraini, noi entravamo. Di solito, non era rimasta alcuna struttura sanitaria funzionante, nemmeno un ambulatorio, e soprattutto non vi era personale sanitario. Gli abitanti erano soprattutto persone anziane che all’arrivo dei russi si erano rifiutate di abbandonare le proprie abitazioni, nascondendosi in cantine e scantinati: molti avevano patologie croniche e non vedevano un medico da mesi.
Avviammo delle cliniche mobili, con consultazioni di medicina generale e supporto psicologico di base. Per le donne avevamo un servizio di ginecologia per problematiche legate alla premenopausa e alla menopausa, vista l’età della popolazione assistita.
Se trovavamo vecchi ambulatori ancora in piedi, utilizzavamo quelli per svolgere le visite mediche. Iniziammo ad assumere personale sanitario ucraino disposto a tornare nei luoghi di origine. Quando un’area viene occupata dai russi, il Ministero della sanità ucraino blocca l’invio dei fondi di gestione, inclusi gli stipendi per il personale: dopo la riconquista dell’area, è necessario del tempo per ripristinare il sistema com’era prima. Noi, allora, in una prima fase riaprivamo quei centri sanitari, anche attraverso piccole opere di ristrutturazione e donazioni di attrezzature e medicinali, oltre che assumendo personale locale; non appena il funzionamento del centro si era stabilizzato, chiedevamo al Ministero di prenderlo in carico, anche per il pagamento di medici e infermieri.
Nel corso delle cliniche mobili, ci è capitato di incontrare alcuni medici e infermieri che avevano deciso di rimanere durante l’occupazione russa e che avevano provato a rendersi utili. In realtà, erano quasi tutte donne. Avevano creato dei piccoli ambulatori nei loro bunker: gli abitanti della zona sapevano che lì potevano farsi curare piccole ferite o ricevere qualche farmaco. Quando siamo arrivati noi, portando le nostre medicine e cercando di trasformare i loro bunker in veri e propri ambulatori, rimanevano esterrefatte: per mesi avevano curato come potevano, ricorrendo anche a metodi naturali perché non avevano nulla, e ora vedevano tutto quel bendidio. Erano bellissime, delle donne fantastiche, delle “super donne”.
E poi c’erano le persone che incontravamo durante i nostri giri: vedere soprattutto donne camminare disorientate, per essere uscite alla luce dopo tutto il periodo dell’occupazione russa trascorso nei bunker, senza riconoscere più i luoghi dove avevano vissuto una vita intera e aver perso ogni punto di riferimento, una strada, una casa, con la pelle di una consistenza e un colore diversi per la scarsa esposizione al sole, con i capelli non pettinati da mesi e ai piedi una ciabatta sola, incrociare queste persone era per noi, ogni volta, un’esperienza sconvolgente.
La diga di Kherson
Quando la diga di Kherson ha ceduto, l’acqua ha ricoperto ogni cosa e abbiamo dovuto sospendere le cliniche mobili perché era impossibile muoversi.
Abbiamo riorientato la nostra attività sulla distribuzione di acqua pulita, perché l’intero sistema idrico era stato danneggiato e la gente non aveva nemmeno l’acqua da bere. Abbiamo formato il personale sanitario di un ospedale nella gestione di possibili malattie infettive provocate dalla mancanza di acqua o dall’acqua contaminata: avevamo l’incubo del colera.
Dalla diga non è fuoriuscita soltanto acqua: un giorno ci siamo ritrovati circondati da una quantità incredibile di pesci che galleggiavano in superficie, privi di vita.
Ritorno a casa
Kostjantynivka è forse il luogo dove le bombe mi sono cadute più vicino. Eppure, non ricordo di aver mai temuto per la mia vita, almeno durante il lavoro nell’ospedale.
Al contrario, una sera ero uscita in auto a comprare da mangiare, quando sono iniziati i bombardamenti. Sentivo l’auto sobbalzare, sotto. In quel momento di vita quotidiana, mi sono sentita completamente indifesa e ho avuto paura. Avevo il terrore che succedesse qualcosa mentre mi lavavo i capelli: temevo che il rumore dell’acqua potesse coprire quello delle sirene; per lo stesso motivo, non ho mai utilizzato il fon.
Solo quando torni a casa da posti come Gaza o l’Ucraina ti accorgi che hai passato un anno intero senza dormire bene e che dopo le esplosioni delle bombe e il ronzio incessante dei droni, basta il rumore dei fuochi d’artificio qui per gettarti nel panico. Sono tutte cose che vengono su dopo, prima o poi.
È il nostro lavoro per MSF: impossibile pensare di farlo in totale sicurezza. A volte sono contraria a esporci sempre in prima fila, ci sono altre organizzazioni che potrebbero agire al posto nostro, sarebbe compito loro. Ma a Kostjantynivka, quando abbiamo lavorato nel pronto soccorso dell’ospedale e con le ambulanze e le cliniche mobili, vicino alla linea del fronte, aiutando le super donne nei bunker e le altre donne che vagavano sperdute per le strade deserte, ero proprio convinta e contenta di farlo: in quel momento c’eravamo solo noi, quello era veramente il nostro lavoro e il posto dove stare.