Il Diritto Internazionale Umanitario sopravviverà anche alla crisi di Gaza

Il Diritto Internazionale Umanitario sopravviverà anche alla crisi di Gaza

 

Di seguito un’intervista a Marco Sassoli, Professore emerito di Diritto Internazionale, Università di Ginevra

A Gaza, le autorità israeliane sostengono di rispettare il Diritto Internazionale Umanitario (DIU) nelle operazioni condotte dai propri militari.

Alcune violazioni sono oggettive. Per cominciare, secondo il DIU, in qualsiasi attacco diretto contro un obiettivo militare legittimo, le conseguenze previste sui civili non possono essere sproporzionate rispetto al vantaggio militare perseguito. Noi non conosciamo i piani militari degli israeliani – e nemmeno la localizzazione di Hamas – e dunque non abbiamo elementi per valutare tale proporzionalità per ogni attacco specifico. Tuttavia, è molto poco probabile, per non dire impossibile, che a Gaza ci siano obiettivi militari talmente importanti e numerosi da giustificare, per ogni attacco, un uso della violenza così massiccio e per di più in un’area così densamente popolata. Se, come sostiene Israele, la Striscia di Gaza fosse da considerarsi un territorio nemico e non un territorio occupato – com’è opinione della stragrande maggioranza della comunità internazionale – il DIU imporrebbe comunque di avvertire la popolazione civile riguardo un attacco contro un obiettivo militare che potrebbe colpirla incidentalmente, mettendone a rischio l’incolumità: ma un quartiere intero, o persino l’intero nord della Striscia non possono essere considerati obiettivi militari legittimi, vista la loro estensione. Infine, poco si parla – oltre che degli ostaggi in mano ad Hamas – dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane sottoposti a violenze e abusi secondo i rapporti di organizzazioni internazionali e locali, come l’israeliana B’Tselem: Israele non consente le visite ai prigionieri nemmeno al Comitato Internazionale della Croce Rossa, come espressamente previsto dalla Quarta Convenzione di Ginevra.

C’è poi la questione del blocco totale degli aiuti umanitari – cibo, acqua, medicinali tra gli altri – dall’inizio di marzo, con il minimo di apertura registrato in questi ultimi giorni.

Se considerassimo la Striscia di Gaza come un territorio occupato, lo Stato israeliano sarebbe obbligato a fornire direttamente gli aiuti e a occuparsi della distribuzione, servendosi se necessario delle proprie forze armate, ma rispettando sempre le norme del diritto internazionale. Israele, però, sostiene che non si tratta di un territorio occupato, e dunque ha solo l’obbligo di consentire il passaggio degli aiuti. Oltre a controllare che non ci siano armi, munizioni e altro materiale bellico, Israele insiste che della distribuzione non debbano beneficiare i combattenti di Hamas, richiesta di per sé legittima per il DIU: non potendo, nei fatti, essere assicurato un simile controllo sulla distribuzione, Israele blocca gli aiuti. Ma qui torniamo al principio di proporzionalità: evitare la fornitura di viveri e altri beni essenziali – non armi – ad Hamas, non è un vantaggio militare tale da giustificare la riduzione alla fame di due milioni di civili. Anche perché sappiamo bene che, nei conflitti armati, i combattenti sono sempre gli ultimi ad avere fame e sete.

Ciò che sta accadendo nella Striscia potrebbero essere anche una diretta conseguenza delle norme antiterrorismo, che giustificherebbero le deroghe al DIU, essendo Hamas considerata un’organizzazione terroristica, anche a livello internazionale.

Da una decina d’anni, questo è un problema molto serio, ma non credo che riguardi tanto i territori occupati: Israele non sta sostenendo che quella nella Striscia è un’operazione di antiterrorismo. In ogni caso, che il gruppo armato sia terrorista o meno, non ha alcuna importanza rispetto all’applicabilità del DIU. Naturalmente gli atti terroristici sono proibiti dal DIU, ma non vi è alcuna norma che preveda un’eccezione in caso di lotta contro il terrorismo. Ad esempio, l’articolo 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra che si applica ai conflitti armati non internazionali, prevede che un organismo umanitario imparziale possa offrire i propri servizi a tutte le parti in conflitto. Qualora una parte, anche se qualificata come “terrorista”, accettasse tali servizi, l’ente umanitario potrebbe legittimamente fornirli: dunque, si tratterebbe di una violazione del diritto internazionale se tale assistenza, rivolta alla popolazione civile collegata a quella parte, fosse impedita o criminalizzata perché considerata come un sostegno al terrorismo.

Un attore messo particolarmente in crisi in questo conflitto sono le Nazioni Unite, non solo il Consiglio di Sicurezza con la sua incapacità di porre un argine all’escalation di violenza e di sanzionare le violazioni del diritto internazionale, ma anche l’UNRWA, l’Agenzia di assistenza per i rifugiati palestinesi.

Le Nazioni Unite non sono un’entità a sé, ma un’associazione che può agire solo in base alle volontà e decisioni dei propri membri. Per il conflitto a Gaza, così come per quello in Ucraina, c’è un membro che blocca il Consiglio di Sicurezza utilizzando il diritto di veto. Ciononostante, il Segretario generale è stato molto chiaro su ciò che accade a Gaza, molto più che per altre crisi, e lo stesso si può dire del Commissario generale dell’UNRWA: parla molto apertamente non solo sui bisogni, ma anche sulle violazioni delle norme internazionali, sicuramente è meno diplomatico della Croce Rossa e persino di MSF. Il caso dell’UNRWA è molto serio: è un atto di totale mancanza di rispetto e di delegittimazione verso le Nazioni Unite accusare pubblicamente una sua agenzia di essere un’organizzazione terroristica. L’UNRWA impiega diverse decine di migliaia di collaboratori palestinesi, è inevitabile che dopo tutti questi anni di occupazione il personale locale non possa essere completamente neutrale rispetto alle parti in conflitto. Mi pare, però, che l’Agenzia abbia sempre operato in modo imparziale, secondo i principi dell’azione umanitaria: è questo il punto essenziale.

Secondo alcuni analisti, per il DIU (e di riflesso anche per i principi umanitari) ci sarà un prima e un dopo Gaza, nel senso che la violazione e la strumentalizzazione delle norme, commesse nella più completa impunità, hanno raggiunto un livello tale da costituire un modello che sarà ripreso nei conflitti futuri, minando in maniera irreparabile la credibilità e l’efficacia di quelle norme.

È una reazione psicologica comprensibile, di fronte a quello che vediamo, immaginare che non ci sia più un futuro per il DIU. Ma abbiamo ascoltato le stesse parole quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Nella Repubblica Democratica del Congo, negli ultimi dieci anni il numero di civili uccisi è stato venti volte maggiore che a Gaza. Non credo che Gaza costituisca un unicum, anzi si potrebbe dire che in questo caso almeno Israele riconosce il DIU come il quadro normativo entro cui operare: contestano i fatti, ma così facendo riconoscono e accettano implicitamente che quelle sono le regole da rispettare. E anche coloro che criticano Israele, si appellano alle stesse norme del DIU. Perciò non si può dire che il DIU abbia perduto la sua rilevanza. Piuttosto, vedo un grande rischio nel doppio standard di valutazione sulle sue violazioni. È un tema sollevato anche dai miei studenti provenienti dal Sud del mondo: “Voi – dicono – criticate il Sudan, la Repubblica Democratica del Congo, i Paesi del Sahel, criticate la Russia per le violazioni in Ucraina. Al contrario, restate in silenzio di fronte a ciò che fa Israele nei territori occupati”. È questa duplicità di standard che fa male alla credibilità del diritto umanitario. Per evitare che il diritto sia percepito come uno strumento di parte, è importante che sia valido per tutte le parti in causa, anche quelle per le quali tendiamo a simpatizzare per motivi storici o politici. Purtroppo, questo non sempre accade, con la conseguenza che molti ritengono il DIU una costruzione occidentale valida solo quando le vittime sono bianchi occidentali. Anche se a mio avviso ciò non è giustificato, il paragone tra l’Ucraina e Gaza è imbarazzante: mentre tutti concordano sul fatto che l’assedio russo di Mariupol sia stato del tutto inaccettabile, le stesse regole sembrano non valere più per Gaza, almeno per i governi occidentali.

Questo articolo è parte della newsletter “Per Principio”, sui temi dell’azione umanitaria