Fabrizio Carucci

Fabrizio Carucci

Psicologo MSF

Il lato oscuro dell’Europa

Fabrizio Carucci

Fabrizio Carucci

Psicologo MSF
Il lato oscuro dell’Europa

Nonostante il campo di Moria abbia un’estensione enorme, in qualsiasi punto del campo ci si trovi non è possibile guardarsi intorno senza vedere filo spinato e grossi cancelli con sbarre metalliche.

Ricordo la prima volta che sono entrato, ho avuto l’impressione di stare all’interno di un villaggio costruito dentro un’enorme prigione. Una massiccia costruzione di cemento, ferro e filo spinato sulle colline dell’isola di Lesbos, dove sono intrappolate migliaia di persone.

Un’altra cosa che mi ha subito impressionato sono i numeri che vengono attribuiti alle persone. Tutte le persone vengono registrate con un numero che inizia con 05 e da quel momento la persona smette di avere un nome, un’identità, una storia. Diventa quel numero.

E poi ci sono le file lunghissime: file per il cibo, file per accedere ai pochi servizi igienici presenti nel campo, file per accedere alla procedura di richiesta di asilo politico. Ore di attesa in fila per poi esibire il numero che inizia per 05. Mesi, anni, passati così, a stare in fila.

Solo sbarre, filo spinato e la voglia di scomparire

Sono tornato in Italia due giorni fa, dopo 8 mesi di missione. Scrivendo mi tornano in mente le immagini di persone che si sono rivolte alle nostre cliniche a Lesbos in cerca di aiuto.

Mi torna in mente una bambina di 8 anni che era convinta che l’Europa fosse una grossa prigione. Ricordo che con la mediatrice culturale abbiamo guardato, insieme alla nostra giovane paziente, fotografie dell’Italia e della Norvegia. Ricordo l’incredulità della bambina, gli occhi lucidi nel guardare la bellezza, i fiordi e le gondole nelle foto. Ho rivisto per un attimo sul viso della nostra giovane paziente riapparire l’entusiasmo dei bambini, meraviglioso, poi, qualche secondo dopo, la realtà, la sua inquetudine nel confidarci che durante il viaggio aveva perso sua padre e suo fratello, e di nuovo lo sguardo basso, il silenzio, la rassegnazione.

Ricordo un adolescente che mi mostrava i profondi tagli sulle braccia e mi raccontava il suo tentativo di fare uscire attraverso il sangue il suo senso di paura, tristezza, rassegnazione. Quasi che svuotandosi del sangue potesse svuotarsi anche delle emozioni, terrificanti, che aveva dentro di sé. Ricordo che mi raccontava di sentirsi costamente come se davanti al lui ci fosse un grande muro e intorno una giugla di di cancelli e filo spinato.

L’idea che ci fosse qualcosa di diverso dietro al muro era la fantasia che gli dava la forza di mantersi in vita. Ricordo quando raccontò, piangendo, della sua voglia di sparire, di non esistere, e del suo tentivo, a quindici anni, di suicidarsi.

A Lesbo ho visto famiglie, bambini, gelarsi sotto la neve in inverno, ho visto donne terrorrizzate che non volevano muoversi nel campo per paura di subire ancora violenza sessuale, ho ascoltato i racconti di uomini in fuga dai loro paesi di origine perchè torturati e umiliati, ho guardato negli occhi genitori rassegnati a vedere crescere i propri figli tra filo spinato e sbarre di ferro.

Arrivano con l’aspettativa di raggiungere un posto sicuro, l’Europa, un posto dove proteggere i propri figli, e poi sbattano contro la realtà. La disilussione piano piano si trasforma in rassegnazione, disperazione.

Nel campo di Moria ho visto l’inferno, in Europa.

Il campo di Moria è un contesto che i bambini e i genitori percepiscono come non sicuro, un contesto che espone a una quotidiana ri-traumatizazione. I sintomi psicologici presentati da bambini che hanno avuto accesso al nostro servizio di supporto psicologico, sono nella quasi totalità sintomi reattivi a esperienze traumatiche.

Le situazioni cliniche dei bambini spesso peggiorano molto a Moria, perché l’ultima speranza dei genitori, e quindi dei bambini, viene delusa. La speranza di raggiungere un luogo sognato a lungo, immaginato come sicuro, in cui poter finalmente garantire ai propri figli un’infanzia sicura. Un luogo in cui poter ricominciare a vivere.

Le patologie dei bambini di Moria

Da un punto di vista clinico, posso affermare con certezza che le esperienze traumatiche vissute dai bambini prima e durante il loro percorso migratorio e l’impatto con le condizioni di vita nel campo di Moria stanno producendo in molti casi evidenti segni di forte stress psicologico, in circa il 20% dei casi si evidenziano sintomatologie psicologiche reattive severe.

A Lesbo ho visto bambini ritirarsi totalmente in loro stessi, smettere di parlare, di giocare, di nutrirsi. Bambini in preda a una sorta di rassegnazione inconsolabile. Molti i casi anche di mutismo selettivo, disturbo da stress post-traumatico complesso, depressione, ideazione suicidaria, autolesionismo. Condizioni che impediscono un completo sviluppo sociale e psicologico e che possono generare sintomatologie psicologiche severe irreversibili.

Molte parole dicono meno di un solo sguardo dei bambini di Moria. Attualmente nel campo ce ne sono quasi 2.000, il risultato dell’accordo Europa-Turchia sui migranti.

Posti come il campo di Moria non sono una soluzione, sono luoghi orribili che generano sofferenza, psicopatologie, de-umanizzazione. Sono luoghi da evacuare immediatamente. Il rischio è l’abitudine, pensare che posti come Moria siano la normalità. Non lo sono, sono l‘inferno in terra.

Posti come Moria sono il lato oscuro dell’Europa, sono i campi della vergogna.

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