Ero a Kunduz, in Afghanistan, come responsabile medico nel settembre del 2011, quando abbiamo aperto il Centro traumatologico. Sono ritornata per un breve periodo all’inizio del 2015, l’anno dell’attacco all’ospedale, e poi nel 2016, per due anni, quando ho seguito tutte le fasi degli accordi per la riapertura delle attività di MSF a Kunduz.
Apertura del Centro traumatologico
Kunduz era coinvolta negli scontri tra le forze governative afghane, supportate dagli Stati Uniti, e i talebani che si trovavano molto vicini alla città: la tensione era molto più alta che in gran parte del Paese.
Il Centro traumatologico fu uno dei primi di MSF con quel grado di complessità e rivolto alla cura, innanzitutto chirurgica e riabilitativa, dei traumi. Anche quando il livello degli scontri era molto basso, eravamo sempre occupati, perché l’ospedale era unico nel suo genere in tutto il nord dell’Afghanistan: ammettevamo molte persone vittime di incidenti stradali gravi. Oltre alle vittime dei combattimenti, vi erano anche quelle degli attacchi kamikaze, non infrequenti in città.
All’inizio, non è stato semplice spiegare alla comunità che quell’ospedale non ammetteva persone con qualunque genere di patologia e neanche con qualunque necessità chirurgica (ad esempio, non operavamo le ernie), e perché dovessimo riferire quei pazienti all’altro ospedale pubblico funzionante in città: “Ma come, hanno aperto un ospedale così grande, dicono di fornire cure gratuite, e poi ci mandano da un’altra parte, con servizi peggiori e a pagamento”. C’è voluto un po’ di tempo per superare la diffidenza della popolazione, più che per altri programmi.
La cura dei talebani feriti
Ammettere in ospedale combattenti talebani feriti era sempre molto complicato, nonostante fosse formalmente accettata da tutti la possibilità che noi curassimo chiunque, civili e militari di qualunque parte. Spesso le autorità afghane arrivavano in ospedale chiedendo informazioni sui pazienti ricoverati. Noi, naturalmente, non potevamo condividere quei dati: le discussioni erano continue. La cosa diventava particolarmente complicata in occasione di arrivi in massa di feriti, a seguito di un combattimento o di un attacco kamikaze: dovevamo gestire, nello stesso tempo, la presa in carico di decine di feriti e le autorità che volevano assumere il controllo delle procedure di triage e di ricovero per verificare l’identità delle persone arrivate.
Ricordo un episodio, nel febbraio 2012, quando c’è stata una sollevazione popolare in tutto l’Afghanistan innescata dal ritrovamento di resti di alcune copie del Corano in un inceneritore di rifiuti della base militare americana di Bagram. Fu attaccata la sede delle Nazioni Unite a Kunduz e i soldati afghani spararono sulla folla. In pochissime ore, ricevemmo una quarantina di feriti e fu difficilissimo gestire i rappresentanti delle autorità locali che cercavano di entrare in tutti i reparti dell’ospedale.
La notizia dell’attacco all’ospedale
La mattina del 3 ottobre 2015, mi trovavo a Bruxelles quando un messaggio mi informò dell’attacco all’ospedale. Fu molto duro per me. Buona parte dei colleghi morti durante l’attacco erano stati assunti durante i primi mesi di apertura dell’ospedale, quando io mi trovavo a Kunduz; in più avevo visitato la città solo pochi mesi prima: conoscevo personalmente quasi tutti loro.
Ricordo in particolare Tahseel, il farmacista. L’avevo assunto poco dopo l’apertura dell’ospedale, all’epoca aveva poco più di vent’anni: era una delle persone più sorridenti che lavorassero nel Centro.
La ripresa delle attività a Kunduz
Al mio ritorno in Afghanistan, nell’ottobre del 2016, non avevamo alcuna attività in corso. Pensavo che non dovessimo aspettare troppo tempo prima di ricominciare a lavorare, in primo luogo perché i bisogni della popolazione erano urgenti, poi per non rischiare di perdere il contatto con la comunità locale e gli altri attori presenti nell’area.
Prima, però, dovevamo cercare di assicurarci che incidenti come l’attacco all’ospedale non si ripetessero.
Negoziammo un memorandum d’intesa sulle procedure di sicurezza con le forze americane, il governo afghano e i talebani. L’accordo si basava sui principi del Diritto Internazionale Umanitario. Si ribadiva che in nessun caso assistere feriti della parte avversa potesse costituire una ragione per attaccare una struttura sanitaria, neanche nell’eventualità che gli scontri fossero localizzati in prossimità della struttura. Se ci fosse stato il dubbio che tale struttura venisse utilizzata per commettere azioni ostili verso una delle parti belligeranti, MSF sarebbe stata contattata per verificare la fondatezza di quel dubbio. Una delle scuse utilizzate inizialmente da autorità afghane e americani per ritenere l’ospedale un obiettivo militare legittimo e giustificare l’attacco, fu proprio che l’ospedale fosse in mano ai talebani e che da lì partissero attacchi contro le forze governative. Era molto difficile per loro accettare che un’organizzazione umanitaria ponesse delle condizioni; in più, che bisogno c’era per loro, i campioni del diritto internazionale, di firmare un accordo per ribadire il rispetto di quelle leggi? Le riunioni con loro furono molto più tese di quelle con i talebani.
L’ospedale vecchio e quello nuovo
Forse non sarei neanche potuta entrare nel vecchio ospedale: l’avevamo abbandonato al termine delle indagini sull’attacco ed era circondato da una recinzione. Ma se anche avessi potuto, non credo che sarei andata a visitarlo. Avevo già visto delle immagini su ciò che era rimasto della terapia intensiva, delle sale operatorie, ed era stato uno strazio per me. Ricordo il giorno dell’inaugurazione del centro. Pensavo: “Wow, siamo riusciti a creare un centro con servizi di qualità, in un posto sicuro per i nostri pazienti e per il nostro staff”. Per noi era come un santuario. E volevo dimenticarlo in fretta quel santuario che avevo contribuito a edificare. Dipende anche dal carattere di una persona: io cerco di guardare avanti, è molto difficile conservare le motivazioni e le idealità se si pensa troppo a episodi come quello accaduto a Kunduz.
Non fu facile trovare un terreno per costruire il nuovo ospedale. Non era solo una questione di estensione e di costi, bisognava anche trovare una posizione che, in caso di combattimenti, consentisse l’accesso a tutte le parti in conflitto e che assicurasse il massimo della sicurezza possibile a pazienti e personale sanitario. Alla fine, visto che i tempi si allungavano, decidemmo di aprire una clinica più piccola, per riallacciare i rapporti con la comunità: il centro traumatologico vero e proprio lo riaprimmo solo nel 2021, il 16 agosto.
Conflitti attuali e azione umanitaria: i rischi che non si possono azzerare
Paradossalmente, Kunduz è stato uno dei contesti in cui abbiamo avuto più spazio per le negoziazioni con le parti belligeranti, sia prima che dopo il bombardamento. Questo spazio per negoziare, nei conflitti recenti, non lo vedo più, come nel caso del Sudan, di Gaza o dell’Ucraina.
Oggi, attraverso le nostre unità di “risk management”, abbiamo sicuramente una conoscenza più approfondita riguardo i temi della prevenzione dei rischi connessi all’azione umanitaria in contesti di conflitto armato. Stiamo investendo nel “duty of care”, ossia quegli interventi finalizzati a prenderci cura della salute e della sicurezza di pazienti e staff anche attraverso una formazione specifica volta ad accrescerne le capacità di analisi del rischio e della sua prevenzione e quelle di gestione degli eventi critici.
Allo stesso tempo, dobbiamo dire con il massimo della trasparenza e onestà che i rischi non possono essere azzerati e che, anzi, se vogliamo avere nelle aree di conflitto lo stesso impatto che avevamo in passato, bisogna che accettiamo un livello di rischio più elevato. Se volessimo operare in piena sicurezza, dovremmo unirci alle organizzazioni umanitarie che restano nelle retrovie, lontano dalle aree di conflitto, svolgendo attività sanitarie pur meritorie. Però, così facendo, lasceremmo la popolazione più vulnerabile senza alcuna possibilità di accesso alle cure.
Una tale consapevolezza dei rischi da assumere nelle aree di conflitto deve essere fatta propria come individui singoli e come organizzazione, bisogna che sia diffusa all’interno del nostro movimento e che le scelte conseguenti siano comprese e accettate da tutti: “In guerra siamo costretti a prenderci questi rischi: siamo tutti d’accordo?”. È una cosa su cui insisto dall’ultimo conflitto in Siria.
Immigrazione verso gli Stati Uniti al tempo di Trump
Non ci sono più persone che, in grandi numeri, si dirigono verso gli Stati Uniti cercando di forzare l’ingresso, né concentrazioni di migranti che premono alla frontiera.
Ciò accade non soltanto per le politiche dell’amministrazione statunitense, a cominciare dalle deportazioni di massa. Tutti i governi dei Paesi centro-americani e qualcuno di quelli sudamericani stanno supportando le politiche statunitensi, riaccogliendo i migranti deportati e impedendo l’uscita di nuovi migranti dai propri confini. Si comportano così perché subiscono il ricatto economico degli Stati Uniti. Tra l’altro, molte delle persone in movimento provenivano dal Venezuela, e conosciamo la tensione che c’è al momento in quel Paese e nelle sue relazioni con gli Stati Uniti.
Il fatto che le rotte migratorie siano deserte non vuol dire che le persone non si muovano più, o che non intendano più farlo: quelle che non restano bloccate nei propri Paesi e che riescono a partire, viaggiano di nascosto, affidandosi ancora di più ai trafficanti di esseri umani. Vuol dire che la popolazione migrante è ancora più vulnerabile, è ancora più vittima di abusi e violenze e ha sempre meno accesso alle cure. Anche perché molte organizzazioni che si occupavano di migranti hanno interrotto o stanno interrompendo le loro attività.
Di fronte a questo nuovo scenario, non è facile avere una strategia efficace di intervento e anche MSF si trova in una fase di riflessione in merito al proprio intervento: si è pensato, ad esempio, di identificare delle antenne, tra la popolazione locale, lungo le potenziali rotte migratorie, col compito di entrare in contatto con gli “invisibili” e intercettare i loro bisogni.
Sono idee finora non concretizzate. Vedremo gli sviluppi futuri e come riusciremo ad adeguare la nostra risposta umanitaria verso persone così vulnerabili e in un contesto così ostile verso la loro e la nostra presenza.