L’inaccettabile prezzo del fallimento

MSF supera 1 milione di fan su Facebook

Oggi, al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite a New York, i leader di tutto il mondo si riuniscono per discutere le sfide connesse ai grandi movimenti di rifugiati e migranti. In questo momento storico non esiste per la comunità internazionale tema più meritevole di un’azione globale urgente e coordinata: non vi sono quindi dubbi sull’opportunità di dedicarvi, per la prima volta nella storia dell’ONU, un vertice di così alto livello, per raccogliere l’impegno degli Stati membri verso una risposta comune più coordinata e umana. Almeno 65 milioni di persone al mondo sono state costrette alla fuga per lasciarsi alle spalle guerre, violenza e persecuzioni; molte di più ancora hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni alla ricerca di condizioni di vita dignitose per sé e per i propri cari. Il protrarsi dei conflitti cronici e della violenza diffusa in paesi come Siria, Afghanistan, Nigeria, Honduras, Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan non consente troppo ottimismo sulla possibilità di risolvere nel breve periodo quello che si presenta come il più grave esodo globale negli ultimi 70 anni.

La bozza di Dichiarazione conclusiva che sarà adottata a New York offre alcuni spunti incoraggianti, pur se espressi in modo piuttosto vago, tra cui l’espressione di solidarietà nei confronti delle popolazioni in movimento, il riconoscimento dell’obiettivo comune di salvare vite umane e l’impegno a garantire “piena protezione ai diritti umani di tutti i rifugiati e migranti, a prescindere dal loro status legale”. Ma al di là delle buone intenzioni e della retorica solenne che spesso accompagna questo genere di appuntamenti, i governi arrivano al Summit privi del necessario senso d’urgenza, confortati anzi dall’aver rimosso già nei negoziati preliminari ogni riferimento a impegni e obblighi precisi di qualsiasi natura, addirittura posticipando al 2018 l’adozione di un piano di misure più concrete.

La realtà è che i paesi che alzeranno la mano per votare l’adozione della Dichiarazione di New York sono già oggi responsabili della violazione dei principi espressi in quel documento. Di più: sono le stesse politiche di respingimento e riduzione dei flussi che hanno adottato, i muri e le barriere che hanno costruito, i sistemi di protezione e accoglienza che hanno indebolito ad aver provocato questa crisi globale e a condannare oggi milioni di rifugiati e migranti a una sofferenza ingiusta e inaccettabile. Dal Messico alla Libia, dalla Grecia alla Nigeria, dal Myanmar al Kenya, i team di Medici Senza Frontiere sono testimoni in prima persona delle contraddizioni profonde che esistono tra la retorica dei governi e le conseguenze dirette delle loro azioni, una crisi senza precedenti a cui abbiamo dedicato la nostra campagna #Milionidipassi.

Abbiamo osservato ad esempio le conseguenze della recente decisione del governo giordano di chiudere alcuni valichi di frontiera con la Siria, lasciando 75 mila persone intrappolate nella “terra di nessuno” tra i due paesi, nel deserto, con scarso accesso ad acqua potabile e cibo e senza un adeguato programma di soccorso. Nella regione del Lago Ciad, gli scontri tra Boko Haram e le forze armate governative hanno costretto milioni di persone ad abbandonare le loro case, in una regione già colpita da povertà, insicurezza alimentare, epidemie ricorrenti e la quasi totale assenza di sistemi sanitari.

Ma sono ben di più gli esempi che dimostrano le responsabilità dei governi e la mancanza di volontà politica per migliorare le vite di rifugiati e migranti. Pensiamo alla minoranza perseguitata dei Rohingya in Myanmar: nel loro stato di origine subiscono severe restrizioni di movimento che ne impediscono l’accesso ai servizi sanitari. Quando riescono a fuggire in Bangladesh, Malesia, Indonesia e Tailandia non possono ottenere lo status di rifugiati e vivono in una sorta di limbo legale, spesso esposti al rischio di arresto e detenzione. Un simile destino spetta ogni anno a circa 300 mila persone che da El Salvador, Honduras e Guatemala cercano di fuggire a nord, per lasciarsi dietro una violenza paragonabile a quella che si trova nei paesi in guerra. Chi entra clandestinamente in Messico non viene protetto, è esposto a ulteriori episodi di violenza e viene metodicamente deportato verso i rispettivi paesi di origine, in flagrante violazione degli obblighi internazionali di non respingimento.

Anche l’accordo firmato l’estate scorsa tra Unione Europea e Turchia prevede un meccanismo di respingimento di dubbia legittimità. Deportare i profughi in Turchia è stata l’unica soluzione trovata dai leader europei, dopo un anno di politiche disumane che hanno intrappolato le persone in campi in Grecia, Macedonia e Francia o le hanno costrette a trascinarsi da un paese all’altro, inghiottiti da sistemi di accoglienza fallimentari nel garantire servizi e cure adeguate. Circa un quarto dei pazienti MSF in Grecia presenta sintomi di depressione e ansia. In Italia, numeri sempre più alti di richiedenti asilo vivono al di fuori del sistema di accoglienza in campi spontanei, baracche, edifici occupati, con accesso limitato a cure mediche e altri servizi di base. La progressiva chiusura delle rotte balcaniche e lo sbarramento dei confini di Bulgaria, Serbia e Ungheria spingono sempre più persone nelle braccia di trafficanti senza scrupoli e provocano un aumento vertiginoso di violenza e abusi.

Se non è possibile raggiungere l’Europa via terra, la traversata del Mediterraneo centrale dalla Libia all’Italia resta per tante persone disperate l’unica soluzione possibile. È la rotta migratoria più pericolosa al mondo: nel 2016 ci sono già state almeno 3.200 vittime, quasi il doppio rispetto all’anno scorso. Ma i paesi europei continuano a negare canali legali e sicuri per ricercare protezione, lasciando chi fugge senza altra scelta se non imbarcarsi su barche di fortuna sovraffollate e male equipaggiate. Negli ultimi 18 mesi, le navi di MSF hanno salvato più di 35.000 persone. Ma quante persone ancora dovranno morire prima che i governi mettano in piedi un meccanismo dedicato di ricerca e soccorso che possa integrare gli sforzi messi in atto dal governo italiano e soprattutto decidano di cambiare radicalmente quelle politiche inumane che hanno trasformato il Mediterraneo in una fossa comune?

I leader degli stati membri riuniti oggi al Summit di New York sappiano che la sofferenza e il dolore che milioni di rifugiati e migranti vivono ogni giorno non possono essere né cancellati né leniti da parole retoriche o semplici discorsi di circostanza. Occorrono misure concrete e visionarie, impegni audaci e forse impopolari, volontà concreta di cambiamento. Occorre che dicano in modo chiaro se davvero intendono fare ciò che serve, oppure se sono pronti ad accettare fino in fondo il prezzo del loro fallimento e del loro cinismo: più sofferenza, più dolore, più ingiustizia.

Loris De Filippi, Presidente Medici Senza Frontiere  

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