Me la sono sempre immaginata così la fine del mondo: muri sbriciolati, pareti dalle ferite profonde, un cane che scava tra i rifiuti diventati una discarica a cielo aperto, le strade quasi vuote, interi isolati ridotti a un cumulo di macerie, un padre che pedala con la figlia nel cestino della bicicletta passando davanti a edifici smembrati.
L’Apocalisse assomiglia al Nord di Gaza, non ho dubbi.
Lo vedo negli occhi dei bambini, lo sento nelle parole disperate di una bimba di 10 anni: “Ho fame, hai qualcosa da darmi?”. La guardo e resto in silenzio, provo vergogna per questa umanità in bilico e forse un po’ anche per me stessa.
Ci sono auto e ambulanze bruciate in ogni angolo della città, i bambini le usano per giocare a nascondino. Davanti all’edificio in cui viviamo c’è un’auto carbonizzata e il pomeriggio alcuni bimbi vengono a divertirsi, ci entrano, si rincorrono, si nascondono, ridono forte.
Oltre alle auto anche molti edifici sono stati dati alle fiamme e quelli rimasti in piedi hanno le pareti nere.
Gli edifici appena colpiti li riconosci perché tutto è ancora lì: gli abiti, le coperte, gli utensili da cucina. Nessuno ha avuto il tempo di portarli via, e così restano tra i resti di quella che un tempo era la vita di qualcuno.
Sono passata davanti all’ospedale di Al Shifa, uno dei complessi ospedalieri più grandi a Gaza. Ho provato un dolore profondo osservando l’edificio distrutto e i pochi muri ancora in piedi completamente scuri, a causa delle fiamme che sono divampate.
Un anno fa mi trovavo a Rafah e di lì a poco sarebbe cominciata l’invasione del Sud della Striscia. Oggi sono al Nord, i droni sono sulla mia testa con insistenza, ci sono esplosioni di giorno e di notte, colpi di mitragliatrice e jet che volano alla massima velocità.
Penso che se la fine del mondo avesse un suono sarebbe proprio questo, sembra il temporale, ma ad ogni tuono una vita si spezza. Non lo so se ci sarà mai fine, il confine è chiuso da più di 50 giorni. Le persone sono affamate, assetate, il carburante e le medicine scarseggiano. Che cosa accadrà?
La speranza mi torna solo guardando negli occhi i miei colleghi palestinesi, così stanchi eppure quella scintilla c’è ancora.
Ho riabbracciato Sohaib, il mio fratello palestinese, ci siamo commossi per un attimo.