Laura Verduci

Laura Verduci

Coordinatore finanziario MSF
La frontiera impossibile

Natale 2018. Parto in missione per rispondere all’emergenza Ebola nella Repubblica Democratica del Congo (RDC): esperienza difficile, esperienza di frontiera. Io che provengo dalla Sicilia e da una storia di lotta per i diritti dei migranti, mi accingevo a varcare il canale di Sicilia verso sud, verso una nuova sfida. Ero pronta.

Sapevo che mi aspettavano due mesi intensi, intrisi di minacce invisibili, scanditi da una routine in cui abbracci e pacche sulle spalle sono impossibili. Sì, impossibili, perché nelle missioni di emergenza Ebola vige la “no touch policy” tra tutti: locali e colleghi. La regola vieta ogni tipo di contatto fisico, da una semplice stretta di mano all’abbraccio, a un tocco accidentale. Il corpo degli altri è già frontiera. E va bene, fa parte del gioco. Serve a tutelare e tutelarsi e per combattere l’epidemia in modo efficace.

Durante la permanenza mi rendo conto che l’Ebola, oltre a essere una spietata malattia, diventa uno strumento politico che divide il governo centrale e i gruppi ribelli, rendendo ancora più farraginoso e difficile il compito di chi, lì, come noi, tenta di debellare l’epidemia.

Il lavoro dei nostri promotori della salute è encomiabile: provano giorno dopo giorno con dedizione a costruire un rapporto di fiducia con una popolazione, quella di Butembo, nel Nord Kivu, afflitta e stremata, da guerre ed epidemie. Ma non è affatto semplice: una popolazione così stanca non si affida facilmente a nessuno, anche se è in gioco la sua stessa sopravvivenza. A esacerbare ulteriormente la già precaria situazione, arriva l’annuncio del governo, a metà dicembre, di escludere le popolazioni colpite dall’epidemia dalle votazioni, adducendo ragioni legate alla strategia di contenimento.

Crack! Il Nord-Kivu si infiamma. Si sparge la voce che l’epidemia sia un complotto del Governo e delle organizzazioni che cercano di contenerla.

Nel giro di pochissimi giorni il nostro lavoro è messo ulteriormente alla prova. Iniziamo ad essere visti con sospetto. Il 24 dicembre, dei bambini iniziano a credere che nascondiamo i loro genitori, prelevati dal governo perché contagiati dal virus dell’Ebola, in una tenda dove in realtà ci sono degli scafandri e dei kit. Inizia una sassaiola contro la nostra base. Cresce la paura, l’incertezza, poi pian piano torniamo, non senza difficoltà, al nostro lavoro. Proviamo a pensare che sebbene tutto stia scivolando nell’insensatezza, dobbiamo continuare a dare il nostro contributo.

Cerchiamo conforto nell’organizzazione della cena di Natale. Dopotutto è Natale e anche noi abbiamo bisogno di un po’ di normalità. Abbiamo bisogno di esorcizzare le paure, che ormai non sono più relegabili al virus Ebola, ma anche a una popolazione che è sempre più diffidente, abbiamo bisogno di credere che la missione non diventi impossibile. Che tutto rientrerà a breve. Piccola pausa, calma apparente tra cibi africani, formaggi francesi e dolci siciliani.

I fatti confutano i nostri desideri.

Grazie a una soffiata veniamo a sapere che la nostra sicurezza è a rischio e la mattina del 26 dicembre veniamo evacuati. Ci dicono di prendere solo un piccolo bagaglio a mano e ci fanno salire su degli aerei a sei posti in direzione di Goma. L’obiettivo è raggiungere il Ruanda la sera stessa. Dobbiamo perentoriamente uscire dal paese. Ne va della nostra incolumità. Dopo una breve sosta presso la nostra sede a Goma, stanchi e sballottati, arriviamo alla frontiera della Repubblica democratica del Congo. Sospiro di sollievo! È fatta! Adesso siamo al sicuro!

Ma la nostra euforia è presto soffocata. La frontiera ci attendeva impassibile. Lo Stato ruandese non ci permette di entrare. Ragione: “Provenite dal Nord Kivu dove attualmente è in corso una epidemia di Ebola”. Siamo tecnicamente respinti. Respinti alla frontiera.

Per la prima volta nella mia vita, dopo essere stata testimone di migliaia di storie di respingimenti nell’arco di vent’anni, ero io in prima persona vittima di un respingimento. È una sensazione terribile. Ritrovarsi di fronte a una porta sbarrata mentre si fugge da un pericolo. Ci si sente estremamente vulnerabili e soli, persino in una condizione protetta come la mia. Da europea, bianca, operatrice umanitaria con Medici Senza Frontiere, provavo, con tutti gli agi e le differenze del caso, la frustrazione di un aiuto negato, di un’indifferenza che rinnega il senso di umanità.

E allora con la mente, ho sorvolato la Libia, ho attraversato lo stretto di Sicilia fino all’Italia e all’Europa, per sentire il dolore di chi fugge e si ritrova solo, impossibilitato ad attraccare in un porto sicuro, di chi preferisce annegare pur di non tornare indietro. Essere operatrice umanitaria mi ha permesso di sentire la disperazione del profugo respinto. Di esperire la violenza delle frontiere, io che, col passaporto europeo, non avevo mai avuto problemi simili.

La frontiera è impossibile, è negazione della salvezza, paradosso della salvezza. Quando invece un luogo, un porto sicuro, così come sancisce il diritto internazionale, non dovrebbe mai essere negato a chi cerca rifugio.

Una missione frustrante e impossibile su più fronti, quindi. Esserci e a volte non poter aiutare. E capire di dover convivere con questi limiti. Ma forse sono le grandi frustrazioni come queste che permettono di ripartire con sguardi empatici e utopici.

In RDC come in Italia, è necessario ora più di prima, credere autenticamente nei principi umanitari e nei diritti umani nonostante sembri impossibile, nonostante le circostanze sembrino avverse e ineluttabili. Nonostante questa impasse dell’umanità. Per salvare l’umanità. Tutta.

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