Nei campi di rifugiati rohingya in fuga dal Myanmar
Fiume di persone
Ciò che mi ha colpito immediatamente è stata la quantità di gente. Per arrivare alla clinica, la nostra auto doveva passare in mezzo a un fiume di persone. E poi bambini ovunque: sporchi, senza scarpe, che dopo la pioggia sguazzavano nel fango, che inseguivano i rifiuti galleggianti lungo i canali di scolo, che ci inseguivano chiedendoci un pallone in regalo.
Ci sono un milione e duecentomila rifugiati rohingya fuggiti dal Myanmar in decine di campi intorno alla città di Cox’s Bazar, in Bangladesh. La maggior parte di loro sono arrivati nel 2017, per sottrarsi a una persecuzione etnica in Rakhine, la regione di origine del Myanmar da generazioni: quasi settemila persone uccise e settecento cinquantamila rifugiatesi a Cox’s Bazar in poche settimane.
Almeno altre centocinquantamila sono arrivate dalla fine del 2023, in fuga da nuovi scontri in Rakhine tra le forze armate del Myanmar e l’“Arakan Army”, un gruppo etnico secessionista.
A Cox’s Bazar, ai Rohingya non è consentito di costruire strutture permanenti: tutto è fatto di bambù. Il campo principale di Kutupalong è il più grande insediamento di rifugiati esistente, la più grande baraccopoli di bambù al mondo.
È qui che ho trascorso tredici mesi.
Divieto di lavorare
Tra il nostro personale, abbiamo circa centoventi Rohingya. Sono per lo più promotori di salute nelle comunità. L’unico modo che abbiamo per retribuirli è rimborsarli in denaro per i pasti: per legge i Rohingya non possono lavorare e quella dei rimborsi è l’unica forma di compenso approvata dalle autorità del Bangladesh.
I nostri promotori di salute bangladesi sono retribuiti, per gli stessi compiti, molto più dei loro colleghi rohingya (per loro valgono le griglie salariali nazionali): è un nostro grande cruccio, ma non c’è verso di aggirare le norme che ci sono state imposte e i controlli sono molto rigidi.
Acqua e vento
Con la stagione delle piogge, l’acqua scende copiosa dalle colline, acqua nera di terra e di fango che fa paura. Nella nostra clinica sono state portate alcune persone rimaste ferite a causa di due smottamenti. Raccontano che non è raro che qualche bambino resti sepolto sotto la terra, perdendo la vita.
Le pareti di bambù della nostra clinica faticano a contenere la pioggia. Se esco all’aperto, l’acqua mi arriva alle ginocchia, entrando dalla parte superiore degli stivaloni di gomma e impedendomi di camminare.
L’unica struttura in cemento esistente è quella per ripararsi dai monsoni (ce n’è una dietro la nostra clinica): le strutture sono troppo piccole per il numero di persone che vivono nei campi. Le autorità ci hanno autorizzato a costruire in cemento solo il Pronto soccorso: i pazienti e il personale di MSF possono utilizzare quello, in caso di arrivo dei monsoni.
Fortunatamente, non ce n’è stato bisogno, durante la mia permanenza a Cox’s Bazar.
Le donne rohingya
Per venire alla clinica, le donne devono chiedere il permesso ai propri mariti. È un fattore culturale con il quale dobbiamo convivere, però questa cosa mi affligge molto. Sono ragazze di diciassette-diciotto anni con già due o tre figli, che fanno fatica a occuparsi dei bambini perché faticano a occuparsi di se stesse.
Una mattina hanno portato alla nostra clinica una ragazza di vent’anni con uno shock settico: è morta dopo meno di un’ora dall’arrivo. Stava male dalla sera prima, ma il marito si era rifiutato di portarla da noi: ripeteva che aveva avuto paura a uscire con l’oscurità, che il campo è un posto violento e che aveva temuto per la sua incolumità e per quella di sua moglie. Se è quella la vera ragione, abbiamo ben poco da obiettare.
Dopo una serie di consultazioni con la popolazione del campo, abbiamo pensato di apportare qualche modifica al nostro reparto di maternità, per invogliare le donne a venire. Vorremmo suddividerlo in otto stanze separate, allestite come i loro ripari di bambù: le donne potrebbero venire con i propri bambini, il marito e la levatrice tradizionale e potrebbero partorire non necessariamente su un lettino, ma anche rannicchiate a terra, strette a una corda o a un bastone di legno, come fanno da generazioni. In questo modo, le nostre ostetriche potrebbero seguire il parto assieme alla levatrice.
La maggior parte delle vittime di violenza che visitiamo sono donne. Le violenze si consumano per lo più nell’ambiente domestico, a opera del partner. Sappiamo che solo un numero piccolissimo di vittime riescono ad arrivare alla clinica: i nostri promotori di salute cercano di sensibilizzare la comunità, ma si tratta di un’impresa titanica.
I rapporti con la popolazione locale
Per le sue attività educative, l’Unicef aveva assunto insegnanti rohingya e bangladesi (questi ultimi impiegati, ad esempio, per l’insegnamento della lingua inglese): quando i loro fondi sono stati tagliati, hanno dovuto licenziarne più di mille, quasi tutti del Bangladesh. Nell’ultimo mese della mia permanenza a Cox’s Bazar, ci sono state tantissime proteste da parte della popolazione locale: hanno bloccato gli accessi ai campi e hanno minacciato il personale delle organizzazioni non governative che continuavano a impiegare personale rohingya.
La gente del Bangladesh è arrivata a un livello di sopportazione minimo nei confronti dei rohingya, ed è per certi versi comprensibile: quando esci dai campi, non te ne accorgi quasi della differenza, i locali vivono nelle stesse condizioni dei rifugiati e si considerano privati delle proprie risorse a beneficio di persone che sarebbero dovute restare sulla loro terra per poco tempo e che invece non solo non diminuiscono, ma continuano ad aumentare. E sono già passati otto anni.
MSF ha delle strutture sanitarie anche all’esterno dei campi, con l’accesso garantito anche alla popolazione locale.
Tagli
Con la riduzione dei finanziamenti, il primo a chiudere è stato il servizio che forniva insulina ai bangladesi. Quasi tutti si sono riversati nella nostra clinica. Noi avevamo già raggiunto i duemila casi previsti per la nostra coorte di pazienti con malattie croniche: quando sono arrivati a decine in cerca di insulina, siamo stati davvero in difficoltà.
Le organizzazioni più piccole hanno ridotto le attività e ci siamo ritrovati gli unici con il Pronto soccorso aperto durante la notte, il che vuol dire dalle quattro di pomeriggio in poi.
Hanno iniziato ad arrivare rifugiati rohingya provenienti anche dagli altri campi, anche loro in cerca delle terapie per patologie croniche: intorno al mese di maggio, siamo arrivati a ricevere quasi il doppio dei pazienti rispetto allo stesso periodo del 2024. Siamo stati costretti a fissare dei criteri di selezione: pazienti adulti con l’ipertensione o col diabete senza bisogno di insulina non li prendevamo in carico. Durante il picco di dengue, col numero dei pazienti totalmente fuori controllo, facevamo a tutti il triage, ma i codici verdi eravamo costretti a mandarli via. Semplicemente non avevamo il personale medico e i farmaci sufficienti per tutti. Per me è stata la cosa più difficile, dover scegliere quali persone curare e quali no.
Siamo rimasti tra i pochissimi a tenere la pompa dell’acqua aperta per tutto il giorno perché, con la riduzione dei fondi, l’erogazione è stata ridotta ovunque a due ore: a parte le code interminabili, in due ore puoi raccogliere a malapena l’acqua per bere e per cucinare, non certo quella per l’igiene personale e per la pulizia dei ripari: abbiamo avuto picchi di casi di diarrea acquosa acuta, di epatite A ed epatite E, e un aumento dei casi di colera; prima di venir via, abbiamo registrato un nuovo incremento dei casi di scabbia.
Gli scarichi dei servizi igienici sono aspirati sempre meno frequentemente, così come è stata ridotta la pulizia dei canali di scolo: l’accumulo dei rifiuti fa ristagnare l’acqua, creando le condizioni ideali per il proliferare delle zanzare: i casi di dengue non si sono azzerati del tutto dopo il picco, come accade di norma.
Malnutrizione
Negli ultimi mesi, abbiamo registrato un progressivo incremento del numero di pazienti malnutriti, una somma fra malnutrizione moderata e severa che ha raggiunto livelli allarmanti.
Questo ci ha un po’ sorpreso perché non c’è stata alcuna riduzione nell’erogazione dei contributi per il cibo. Forse la ragione stava nell’aumento dei nuovi arrivati dal Myanmar che, in attesa di essere registrati e di poter accedere agli aiuti, si stabilivano nei ripari di familiari e conoscenti, utilizzando le loro già scarse risorse alimentari.
In seguito, abbiamo appreso che l’organizzazione umanitaria incaricata di occuparsi dei casi di malnutrizione aveva iniziato ad assistere soltanto quelli più gravi, non distribuendo cibo terapeutico ai casi moderati, condannandoli in questo modo a un progressivo deterioramento delle loro condizioni.
Prima della mia partenza, circolavano voci su una possibile riduzione del 50% del contributo per il cibo, a partire dal prossimo gennaio: se così sarà, dovremo aspettarci un aumento dei casi di malnutrizione acuta, soprattutto nelle fasce di popolazione più deboli, come i bambini sotto i cinque anni di età e le donne in gravidanza.
Epatite C
Abbiamo condotto un primo studio sulla prevalenza dell’epatite C nella popolazione all’interno dei campi che ha mostrato risultati preoccupanti. In alcune aree, abbiamo riscontrato una prevalenza del 40%, con un tasso di sieropositività del 20: vuol dire che su dieci persone testate, quattro risultavano essere entrate in contatto con il virus e due aver sviluppato un’epatite cronica. Abbiamo deciso di intervenire.
La nostra equipe si è occupata dei campi 14, 15 e 16. Abbiamo fatto il test a tutti gli adulti e ai minori fino a quattordici anni, attraverso una campagna porta a porta. Tutte le persone risultate positive potevano iniziare la terapia. L’intervento è stato accolto molto favorevolmente dalla popolazione.
Insieme ai test per l’epatite C, abbiamo eseguito anche quelli rapidi per l’HIV, perché non è infrequente la coinfezione dai due virus. Abbiamo individuato un numero non altissimo di persone HIV positive, ma la loro presa in carico ha cozzato col taglio dei fondi per i programmi sanitari. MSF non ha il mandato di somministrare gli antiretrovirali nei campi, dobbiamo riferire i pazienti ad altre organizzazioni che procedono alla conferma della sieropositività e all’eventuale avvio della terapia. Il processo si è arenato poco prima della mia partenza, ufficialmente per la mancanza di test per la conferma della sieropositività: si sono create lunghe liste d’attesa, gli unici a essere presi in carico immediatamente sono stati i bambini e le donne in gravidanza.
L’impatto sulla salute mentale
Il governo del Bangladesh preme per un rapido ritorno dei Rohingya nel loro Paese. Ma i Rohingya continuano a fuggire dal Myanmar e ad attraversare il confine. In più, i rifugiati di Cox’s Bazar sanno bene che in Myanmar non hanno più nulla: i villaggi sono stati distrutti e le loro terre confiscate.
La nostalgia di casa si mischia alla consapevolezza dell’impossibilità del ritorno e a quella dell’assenza di ogni prospettiva di un futuro migliore in Bangladesh. Nonostante la giovane età, i nostri pazienti manifestano stati d’animo di tristezza e di sconforto, fino alla disperazione, alcuni si mostrano apatici, privi di ogni segno di vitalità. È questa condizione di malessere una delle cause principali degli episodi di violenza domestica.
Esiste un grosso stigma per la salute mentale nella comunità rohingya: inizialmente nessuno ci riferiva apertamente di disturbi mentali, né voleva essere visto dagli altri negli spazi della clinica dedicati alle attività di supporto psicologico. Abbiamo svolto un grandissimo lavoro di sensibilizzazione nella comunità, anche attraverso l’organizzazione di gruppi di ascolto da parte dei nostri promotori di salute, e gradualmente il numero di pazienti è aumentato.
Il supporto psicologico è presente anche nel reparto maternità, vista la giovane età delle madri e, più in generale, le difficili condizioni di vita delle donne nei campi che si ripercuotono negativamente sulla loro tenuta mentale.
L’altra fascia della popolazione da attenzionare sono i bambini. Nella clinica ci portano quelli con problematiche evidenti, in genere disturbi dell’apprendimento e dello sviluppo psicofisico. Ma ci sono disagi meno evidenti, più legati alle condizioni di vita nei campi, che dobbiamo individuare più proattivamente, prima del loro acutizzarsi. Per questo, ci siamo dotati di strumenti per identificare i potenziali disagi nei bambini che accedono alla clinica anche per problematiche mediche diverse da quelle relative alla sfera della salute mentale.
