Jérome Tubiana

Jérome Tubiana

Capo progetto MSF

La vergogna dell’Europa è rinchiusa in Libia

Jérome Tubiana

Jérome Tubiana

Capo progetto MSF
La vergogna dell’Europa è rinchiusa in Libia

Jérome Tubiana è un ricercatore e giornalista che ha coperto conflitti in Ciad e Sudan per più di 20 anni, oltre che autore di “Guantanamo Kid: La vera storia di Mohammed El-Gharani”.

L’odore delle feci diventa sempre più forte mentre ci avviciniamo all’entrata dell’edificio principale del centro di detenzione di Dhar-el-Jebel, circa 150 chilometri a sud-ovest di Tripoli tra i monti del Nefusa. È un problema di acque reflue, ci spiega il direttore del centro scusandosi.

Apre la porta in metallo di un magazzino in cemento dove vivono circa 500 persone in detenzione, quasi tutte provenienti dall’Eritrea. I richiedenti asilo sono distesi su materassi grigi sparsi sul pavimento. Alla fine di un corridoio lasciato libero, gli uomini sono in fila per urinare in uno degli 11 secchi.

Nessuno in questa stanza – mi racconta un detenuto durante la mia prima visita nel maggio 2019 – ha visto la luce del sole dal settembre 2018, quando circa 1.000 migranti sono stati trasferiti qui da un altro centro di detenzione per essere al sicuro dai combattimenti in corso a Tripoli.

Zintan, la città più vicina, è lontana dalle violenze tra le milizie, ma anche dagli occhi delle agenzie internazionali. I migranti dicono di essere stati dimenticati.

In Libia, circa 5.000 richiedenti asilo sono ancora detenuti per un tempo indefinito nei circa 10 principali centri di detenzione ufficiali, nominalmente gestiti dal Dipartimento per combattere l’immigrazione illegale (DCIM) del Governo di accordo nazionale (GNA), riconosciuto a livello internazionale.

In realtà, dalla caduta del dittatore Gheddafi nel 2011, la Libia non ha più avuto un governo stabile e l’amministrazione di questi centri è finita nelle mani di diverse milizie. Senza un governo funzionante, i migranti in Libia vengono regolarmente rapiti, costretti a lavorare come schiavi e torturati al fine di richiedere un riscatto.

Dal 2017 l’Unione Europea finanzia la Guardia costiera libica per impedire ai migranti di raggiungere le coste europee, dove molti chiedono asilo. Con le attrezzature e l’addestramento dell’UE, le forze di sicurezza libiche catturano e bloccano i migranti nei centri di detenzione, alcuni in zone di guerra, altri in luoghi dove è noto che le guardie li vendono ai trafficanti.

Molti dei migranti fuggiti da regimi oppressivi si sentono abbandonati dalle agenzie internazionali e non hanno soldi per permettersi una via d’uscita.

L’Europa dice che ci portano qui per la nostra sicurezza. Perché non ci lasciano morire in mare, senza dolore? Per noi è meglio che lasciarci qui a morire. Gebray* Eritreo detenuto a Dhar-el-Jebel

Dhar-el-Jebel

A differenza di altre strutture di detenzione che ho visitato in Libia, il centro di Dhar-el-Jebel non sembra una prigione. Prima del 2011 questa serie di grandi case di campagna era un centro di addestramento per “bambini, cuccioli e braccia armate del Grande Liberatore”, secondo la definizione ufficiale, a cui veniva insegnato il “Libro verde” di Gheddafi, un breve manuale di insegnamenti obbligatori a firma del dittatore. Quando nel 2016 è stato costituito il GNA a Tripoli, il centro è stato sottoposto all’autorità del DCIM.

MSF, con cui collaboravo in Libia come coordinatore di progetto, ha iniziato a visitare i migranti a Dhar-el-Jebel nell’aprile 2019. Allora il centro deteneva circa 700 persone, in maggioranza registrate come richiedenti asilo dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), anche se per la legge libica erano solo migranti “illegali” e potevano essere detenuti per un tempo indefinito.

Con poche speranze di andarsene, diversi di loro hanno tentato di suicidarsi toccando cavi elettrici. Altri hanno riposto fiducia in Dio, nei social media o nelle loro capacità di sopravvivenza. La maggior parte dei detenuti eritrei sono cristiani, sul muro di fronte alla porta hanno costruito una chiesa ortodossa etiope con cartoni colorati per alimenti, stuoie verdi dell’UNHCR e candele di cera in forma di croci.

Su altri materassi hanno scritto, usando concentrato di pomodoro e peperoncino, frasi come “Siamo vittime dell’UNHCR in Libia”. Con i cellulari hanno postato foto sui social media in cui posano con le braccia incrociate per mostrare il loro stato di prigionia.

Una settimana dopo, i loro sforzi hanno attirato un po’ di attenzione. Il 3 giugno l’UNHCR ha evacuato 96 richiedenti asilo a Tripoli. L’affollato magazzino in cui avevo incontrato per la prima volta i migranti è stato svuotato, ma altri 450 eritrei sono rimasti stipati in altri edifici del complesso. Oggi, 20 persone sono ammassate in ognuna delle oltre 20 stanze più piccole, anche se molti detenuti preferiscono dormire nei cortili in tende fatte di coperte.

La maggior parte degli eritrei a Dhar-el-Jebel ha storie simili: prima di finire intrappolati nel sistema di detenzione arbitrario in Libia, sono fuggiti dalla dittatura nel loro paese dove il servizio militare è obbligatorio.

Nel 2017, Gebray, un uomo sui trent’anni, ha lasciato moglie e figlio in un campo rifugiati in Etiopia e ha pagato ai trafficanti 1.600 dollari per attraversare il deserto sudanese con altre decine di persone. Ma i trafficanti li hanno venduti ad altri trafficanti libici che li hanno tenuti prigionieri e torturati con scosse elettriche fino a quando non hanno telefonato ai loro parenti per chiedere il pagamento di un riscatto.

Dopo 10 mesi di prigione, mi ha detto Gebray, la sua famiglia ha trasferito quasi 10.000 dollari per il suo rilascio: “Mia madre e le mie sorelle hanno dovuto vendere i loro gioielli. Ora devo ripagarle. È molto difficile parlarne”.

I migranti eritrei vengono presi di mira perché molti trafficanti libici credono che possano ottenere sostegno economico dalla ricca diaspora in Europa e nel Nord America. Siamo i più poveri, ma i libici pensano che siamo ricchi. Ci chiamano dollari o euro mi racconta un altro richiedente asilo eritreo.

Sopravvissuti alla tortura, in molti, come Gebray, hanno pagato di nuovo per attraversare il Mediterraneo ma sono stati intercettati dalla Guardia costiera libica e messi nei centri di detenzione.

Alcuni dei compagni di cella di Gebray sono stati incarcerati per oltre due anni in cinque centri diversi. Man mano che la traversata del mare è diventata più pericolosa, alcuni si sono arresi a restare nei centri di detenzione, sperando di essere registrati lì dall’UNHCR.

Nel magazzino di Dhar-el-Jebel, Gebray ha incontrato un suo ex compagno di scuola di nome Habtom, diventato dentista. Con il suo background medico, Habtom si è auto-diagnosticato la tubercolosi. Dopo quattro mesi con la tosse, è stato spostato dal deposito in una casa più piccola, dove mettevano gli eritrei malati. Gebray, che a quel punto “non era più in grado di camminare, nemmeno per andare in bagno”, come lui stesso racconta, lo ha presto seguito. Al momento della mia visita, circa 90 eritrei, in maggioranza casi sospetti di tubercolosi, erano confinati nella casa dei malati, dove non ricevevano cure adeguate.

Un tempo rara in Libia, la TB si è diffusa rapidamente tra i migranti nelle prigioni sovraffollate. Quando ho parlato con Gebray, mi ha consigliato di mettermi una maschera: “Ho dormito e mangiato con persone malate di TB, compreso Habtom.”

Habtom è morto nel dicembre 2018. “Se riesco a raggiungere l’Europa, aiuterò la sua famiglia, è mia responsabilità” ha detto Gebray. Tra settembre 2018 e maggio 2019, sono morti almeno 22 detenuti da Dhar-el-Jebel, la maggior parte per TB.

C’erano dei dottori nel centro di detenzione, alcuni dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), altri dell’International Medical Corps (IMC), un’organizzazione fondata da UNHCR e UE. Un ufficiale libico mi ha detto: “Li abbiamo pregati di portare i detenuti in ospedale, ma hanno risposto di non avere budget”. I trasferimenti verso centri di cura sono stati pochi.

Invece circa 40 dei detenuti più malati, in maggioranza cristiani, sono stati trasferiti in un altro centro di detenzione a Gharyan, più vicino a un cimitero cristiano. “Le persone venivano mandate a Gharyan per morire” ha detto Gebray. Otto di loro sono morti tra gennaio e maggio.

Gharyan

Al contrario di Dhar-el-Jebel, Gharyan ha l’aspetto di un vero centro di detenzione, con una serie di container circondati da alte recinzioni metalliche. Yemane* è stato trasferito qui a gennaio: “Il direttore del centro di detenzione e lo staff di IMC ci hanno detto che ci avrebbero portati in un ospedale di Tripoli. Non hanno nominato Gharyan… Quando siamo arrivati qui, siamo stati subito chiusi in un container.”

Secondo Yemane, una donna ha provato a impiccarsi quando ha scoperto di essere a Gharyan, invece che in un ospedale come i medici di IMC avevano promesso. Molti avevano brutti ricordi di Gharyan: nel 2018 uomini armati col volto coperto avevano forzato l’entrata, legato l’unica guardia e rapito almeno 150 migranti, poi venduti a centri di tortura. I loro aguzzini chiedevano 20.000 euro a ognuna delle loro famiglie. Dopo quel rapimento, i migranti rimasti si sono rifiutati di tornare nelle loro celle e hanno chiesto alle Nazioni Unite di essere evacuati. Per tutta risposta, le milizie locali hanno sparato a cinque di loro.

A quel punto il GNA ha chiuso per breve tempo il centro di detenzione, che però ha riaperto dopo poco con un nuovo direttore. È stato lui a dirmi che i trafficanti lo chiamavano per provare a comprare alcuni dei migranti che erano sotto la sua custodia.

Nell’aprile 2019, le forze di Haftar hanno lanciato un’offensiva contro le forze pro-GNA a Tripoli e hanno preso Gharyan. Le truppe di Haftar si sono stabilite vicino al centro di detenzione e gli aerei del GNA hanno bombardato ripetutamente l’area. Le guardie, verosimilmente spaventate dagli attacchi aerei, hanno disertato.

Ogni volta che ho visitato il centro, abbiamo raggiunto il direttore del centro nella sua casa in città e abbiamo guidato fino al cancello del centro, dove lui chiamava un migrante perché ci aprisse. I migranti avevano chiesto un lucchetto per poterlo chiudere. Le forze pro Haftar passavano a volte per chiedere ai migranti di lavorare per loro. Yemane racconta che una volta hanno prelevato 15 uomini che non hanno visto mai più.

MSF ha chiesto che l’UNHCR evacuasse le persone detenute a Gharyan. L’agenzia delle Nazioni Unite ha prima negato che Gharyan fosse in una zona di guerra, poi ha ceduto e suggerito che fossero trasferite al centro di detenzione Al-Nasr a Zawiya, a ovest di Tripoli. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha accusato le forze che controllano la struttura di traffico di migranti e ha sanzionato due dei loro capi. Ma alla fine i detenuti sono rimasti lì.

Il 26 giugno, le forze del GNA hanno ripreso Gharyan. Il giorno dopo, hanno sfondato il cancello del centro con un’auto e hanno chiesto ai migranti di combattere per loro. I detenuti spaventati hanno mostrato i loro farmaci per la TB e hanno pronunciato parole in arabo che gli operatori UNHCR avevano insegnato loro – kaha (tosse) e darn (tubercolosi). Gli uomini armati sono andati via, ma non prima che uno di loro li avvertisse: “Se siete malati, torneremo ancora e vi spareremo. Dovete morire!”

Vivere per strada a Tripoli

Il 4 luglio, l’UNHCR finalmente ha evacuato a Tripoli le persone che erano rimaste nel centro. Le Nazioni Unite hanno dato ai migranti 450 dinar (circa 100 dollari) per coprire le spese in una città che non conoscevano. Ma il posto che doveva ospitarli è risultato troppo costoso, e si sono spostati in uno più economico, che di solito ospitava pecore.

L’UNHCR dice che vivremo al sicuro in questa città, ma per noi la Libia non è né libera né sicura”. Yemane

La maggior parte dei 29 migranti evacuati da Gharyan oggi sono bloccati, non al sicuro, nelle strade di Tripoli, attaccati alla speranza che riceveranno asilo.

Mentre i combattimenti a Tripoli continuano, le milizie hanno chiesto a Yemane di arruolarsi con loro per 1.000 dollari al mese. “Ho visto molti migranti reclutati in quel modo e poi feriti” mi ha detto di recente su WhatsApp. Due dei suoi compagni di stanza sono stati imprigionati di nuovo dalle milizie e hanno dovuto pagare 200 dollari ognuno.

I migranti di Gharyan sono così spaventati di vivere nelle strade di Tripoli che hanno chiesto di tornare in detenzione, uno di loro è riuscito a entrare nel centro di detenzione di Abu Salim. Molti di loro hanno la tubercolosi. Anche Yemane a fine ottobre ha scoperto di essere positivo e deve ancora ricevere una qualunque cura.

False promesse

Al contrario di Gharyan, Dhar-el-Jebel è lontano dai combattimenti. Ma da aprile, i migranti si sono rifiutati di essere trasferiti lì per paura di essere dimenticati a Zintan. Secondo un ufficiale di Zintan, “il nostro unico problema qui è che l’UNHCR non sta facendo il suo lavoro. Hanno fatto a queste persone false promesse per due anni.

La maggior parte delle persone detenute a Dhar-el-Jebel sono state registrate come richiedenti asilo dall’UNHCR, quindi sperano di essere ricollocati in paesi sicuri. Gebray si è registrato nell’ottobre 2018: “Da allora, non ho mai visto l’UNHCR. Ci hanno dato la falsa speranza che sarebbero tornati dopo poco per intervistarci e ricollocarci fuori dalla Libia.”

I 96 eritrei e somali che a giugno l’UNHCR ha trasferito da Dhar-el-Jebel al proprio “centro di raccolta e partenza” a Tripoli sono stati convinti che sarebbero stati tra i pochi fortunati ad avere priorità nei ricollocamenti in Europa o Nord America. Ma secondo alcune testimonianze, a ottobre l’UNHCR avrebbe respinto circa di 60 di loro, tra cui 23 donne e sei bambini. La loro scelta oggi è tra provare a sopravvivere nelle strade di Tripoli o accettare un “ritorno volontario” nei paesi dalla cui violenza sono fuggiti.

Il rapporto sulla visita di giugno delle Nazioni Unite a Zintan avvertiva: “Il numero di persone che l’UNHCR sarà in grado di evacuare sarà molto piccolo rispetto al totale della popolazione restante, dati i limitati posti offerti dalla comunità internazionale.”

A oggi, l’UNHCR ha registrato 60.000 richiedenti asilo in Libia, ma è riuscita a ricollocarne solo 2.000 circa all’anno. La capacità dell’agenzia dei rifugiati di ricollocare i richiedenti asilo dalla Libia dipende dalle offerte da parte di paesi ospitanti sicuri, soprattutto in Europa.

Anche i paesi UE più aperti ad accoglierli stanno ospitando solo poche centinaia delle persone che vengono bloccate in Libia ogni anno. E il sempre minore impegno degli Stati Uniti a ricollocare i migranti non aiuta.

Le persone detenute a Dhar-el-Jebel lo sanno bene: durante un’altra protesta i loro slogan, scritti sui materassi col concentrato di pomodoro, erano rivolti all’Europa: “Condanniamo le politiche dell’Unione Europea contro rifugiati innocenti detenuti in Libia.”

*I nomi sono stati cambiati.

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