Oussama Omrane

Oussama Omrane

Promotori della salute/Antropologi MSF
Nei polmoni dell’inferno

Ieri abbiamo effettuato quattro salvataggi. Malgrado la stanchezza e l’attesa infinita tra un salvataggio e l’altro il nostro stato d’animo era al top, eravamo contenti perché i nostri “ospiti” stavano bene. Le 394 persone che abbiamo a bordo vengono da paesi diversi, ognuno ha la propria vicenda personale, i suoi ricordi indelebili, brutti e belli.

Pensavo di aver visto tutto, credevo di aver sentito le storie più mostruose. Le mie esperienze passate e attuali con Medici Senza Frontiere mi hanno permesso di avere un’ampia idea su quello che subiscono le persone che scappano dalla Libia, ma mai avrei pensato di sentire una storia così macabra e funesta come quella che ho sentito oggi.

Come al solito, una volta tornato sulla nave, inizio il mio giro tra gli “ospiti”, così incontro Zohra e Fatima. Le due donne erano felici di trovare qualcuno che parlasse la loro lingua e quindi capace di ascoltarle e comprenderle.

Zohra. A e Fatima. K sono due donne diverse che condividono lo stesso destino, un destino che le ha portate a fare amicizia e a intraprendere un viaggio rischioso ma pieno di speranza.

La storia di Zohra

Zohra è una ragazza libica di 25 anni. Viene da una famiglia numerosa: oltre ai genitori, Zohra ha tre fratelli e tre sorelle ed era iscritta all’università.

“Mi mancavano solo pochissimi esami per laurearmi. Amo l’università e i miei studi”.

I problemi che sta vivendo da anni il paese nordafricano non hanno risparmiato la sua famiglia. Un noto criminale della zona, un nuovo signore della guerra che si fa circondare dai suoi scagnozzi, ha dato fuoco alla casa della famiglia di Zohra. Cosi sono iniziati i suoi guai.

Zohra ricorda e mi dice: “Un giorno ero all’università, questo criminale ha fatto irruzione in aula e i suoi uomini hanno cominciato a cercarmi. Né i miei colleghi né i miei professori potevano fare qualcosa per proteggermi, così sono stata rapita. Fortunatamente sono riuscita a lanciare un SOS dal mio telefonino. Il mio rapimento è durato poche ore; Poche ore nelle quali il mio povero corpo ha subito la violenza degli uomini di quel criminale, mi hanno picchiata a sangue e poi mi hanno buttata per la strada!”

Anche dopo quest’orribile esperienza, Zohra continuava a essere minacciata di morte. La sua vita si era trasformata in un inferno. I suoi genitori decisero di lasciare la città, impedendo così alla loro figlia di proseguire i suoi studi.

La ragazza si rammenta di quel momento, con la voce piena di emozione e mi dice: “Questa decisione mi ha distrutto, i miei sogni sono stati infranti, la paura ha vinto”; Zohra mi parlava con uno sguardo ben deciso. I suoi occhi comunicavano per lei: è una donna che sa il fatto suo e sa di voler essere indipendente: “Non voglio essere un peso per nessuno, voglio costruire la mia vita con il mio sudore senza l’aiuto di nessuno”.

Per quattro anni ha lavorato come segretaria presso uno studio di analisi mediche fino a otto mesi fa quando la sua carriera professionale e la sua vita di donna indipendente subiscono un brusco arresto: i suoi genitori decidono di darla in sposa a un loro conoscente. Inizia così un lungo periodo molto più drammatico per Zohra. Suo marito, molto anziano, la picchiava spesso. Fin dal momento delle nozze, non ha fatto altro che mostrarle il suo vero volto. Cercava di costringerla a pratiche sessuali alle quali lei non voleva sottoporsi. Quando Zohra rifiutava, lui la picchiava sempre più forte.

Zohra ha cercato rifugio presso la sua famiglia ma, invece di protezione, ha trovato indifferenza e omertà: “I miei mi dicevano che è mio dovere obbedire a mio marito. E se mi picchia devo solo avere pazienza!”

In Libia come in altri paesi africani il sesso è ancora tabù, parlarne in sé è un atto di coraggio. Tante sono le vittime di abusi sessuali di ogni tipo che si seppelliscono nel loro silenzio.

Non avendo trovato l’aiuto che cercava in famiglia, a Zohra non rimaneva che una cosa, una decisone amara ma secondo lei necessaria: tornare dal marito. “Credevo, ingenuamente, che mio marito si sarebbe calmato; Invece non gli bastava picchiarmi, non gli bastava più niente!. Zohra continua a parlarmi, il suo sguardo è sempre fiero, voleva magari piangere ma il suo orgoglio non gliel’ha permesso. Zohra si prende una pausa di pochi istanti, la sua mano cerca quella dell’amica Fatima che ha assistito al nostro incontro, la trova e la stringe forte come un bambino impaurito che cerca la mano affettiva della mamma, sospira profondamente e continua il suo racconto.

“Circa cinque mesi fa, mio marito è spuntato con un gruppo di amici, erano in sei. Mi ha costretta ad avere rapporti sessuali con loro, tutti e sei mentre lui guardava, guardava e guardava. Non ha avuto pietà per me, nessuna pietà per le mie lacrime, né per il mio onore né per il suo! Questa violenza è durata per quasi 5 mesi”.

La storia di Zohra è dura, troppo dura, ma lei sembra così fiera che non da nessun segno di cedimento. Per cinque mesi Zohra è stata costretta dal marito ad avere rapporti sessuali con i suoi amici. Un giorno, però, riesce a scappare e a tornare dalla sua famiglia. La reazione della famiglia, però, non è stata poi tanto diversa delle precendenti.

“Non mi rimaneva che scappare e ci sono riuscita. Mio marito e i suoi amici continuavano a minacciarmi via telefono – mi fa vedere qualche sms di minaccia e altri messaggi vocali – Sono tre mesi ora che sono lontana da quella bestia, tre mesi nascosta e protetta dalla mia amica.

E proprio da quella amica Zohra incontra Fatima. Da quel momento le due donne sono inseparabili.

La storia di Fatima

Fatima è una donna marocchina di 32 anni. Ha vissuto tutta la vita in Marocco. I suoi genitori si sono separati e risposati. Veniva rimbalzata come una palla da tennis tra i due e si sentiva sempre più abbandonata.

“Non ce la facevo più, ero peggio di un barbone. L’unica speranza per me era di lasciare il Marocco e di andarmene lontano”.

Era il 2009 quando Fatima sale su un aereo diretto in Libia, dove ha una sorella. Fatima non poteva stare in casa con lei e suo marito ma sua sorella le ha dato una mano a sistemarsi.

“Ho iniziato a lavorare come badante in una casa e devo dire che le cose sono andate bene per me”.

Quando il caos in Libia è divenuto incontrollabile, Fatima e molte donne come lei cominciano a essere in pericolo.

“Nel 2013 lavoravo in un bar, ero discreta e cercavo di non farmi vedere. Una sera un gruppo armato di 20 persone, ha fatto irruzione nel bar, hanno sparato, picchiato e alla fine mi hanno rapita. Mi hanno portata in una fattoria nelle periferie della città”

Anche Fatima mostra l’orgoglio di una persona forte ma fragile. Continua a raccontarmi il suo balzo nei polmoni dell’inferno libico.

“Per sette giorni e sette notti sono stata violentata ripetutamente da quei 20. Immagina un po’ 20 animali, pazzi e drogati, più belve delle belve che ti picchiano e ti violentano senza sosta per sette giorni. Alla fine ero peggio di uno straccio, sanguinavo ovunque, ero più morta che viva!”

I suoi rapitori, per paura che lei morisse, decidono di riportarla in città dove la abbandonano per strada. Fatima è stata fortunata perché qualche persona di buon cuore l’ha trovata e l’ha portata in ospedale. Fatima soffriva di un’emorragia vaginale. Con la poca lucidità che le rimaneva, Fatima voleva sporgere denuncia ma per chi e contro chi? I medici le dicono che non sarebbe servito a nulla perché la Libia è diventata una casa senza padroni, dove lo stato non esiste più.

Per sette mesi Fatima non esce più da casa, nemmeno per prendere una boccata d’aria. Era sotto shock. Sua sorella si prendeva cura di lei.

Arriva la primavera, Fatima decide di uscire per fare qualche passo. Dopo sette mesi la sua attesa era finita, si sentiva più in forma. La giovane donna sorride mentre si ricorda della sua voglia di rivivere e di lasciarsi alle spalle quello che aveva vissuto. Il suo sorriso, franco e onesto, è durato solo pochi attimi.

“Volevo iniziare a rivivere nuovamente, non volevo seppellirmi dentro le mura di casa. Così esco, inizio a camminare, ero felice in qualche modo. A un tratto sento qualcuno che mi segue, mi giro e me ne accorgo. Non era il giorno buono per uscire. Comincio a correre e a scappare. Quelli di dietro corrono e poi sparano qualche colpo in aria, mi fermo, mi metto in ginocchio con le mani in alto”

Fatima si ricorda ogni attimo di quella maledetta giornata. Gli uomini che la rapiscono sono 12, armati ma soprattutto drogati. Erano in uno stato molto, molto alterato. Fatima è stata portata in una fattoria lontana dalla città.

Con un sorriso pieno d’ironia mi dice: “Sai, questi gruppi qua sono diversi, a volte nemici ma hanno una cosa in comune: la droga e la fattoria nella periferia della città”

Per un mese intero Fatima è rimasta nelle loro mani: “Ogni giorno venivo violentata da tre o quattro unomini, di giorno, di notte e all’alba. Per loro non c’è alcuna differenza. Ero costretta a sopportare i loro corpi pieni di lardo sopra di me, il loro alito puzzolente di alcool, le loro mani pesanti quando mi picchiavano o mi strangolavano. Per un mese mi hanno tolto l’anima e la mia femminilità. Ero diventata solo un corpo senza anima, una fonte di piacere per quelle belve. Non desideravo altro che la morte. In fin di vita, Fatima viene portata via e buttata per le strade della città”.

È passato un anno. Un anno nel quale Fatima è rimasta chiusa, non solo nella sua casa, ma nel suo mondo di orrori e incubi, terrorizzata parlava da sola. Alcune amiche marocchine l’hanno aiutata a ritrovare la voglia di vivere, o almeno la forza di andare avanti.

Nel 2015 conosce suo marito. “L’ho incontrato a un matrimonio, ma poi ho rifiutato di rivederlo perché continuavo ad avere paura degli uomini. Il nostro rapporto è iniziato troppo lentamente, lo sentivo ogni giorno al telefono e solo dopo tanti mesi ho realizzato che poteva essere la persona giusta per me”. I due si sposano. Il comportamento del marito era ottimo. Tuttavia le cose, col passare del tempo, sono cambiate. Il marito, che lavorava come idraulico, non era più quello di una volta, inizia a picchiarla.

“Ero incinta di due mesi, ero felice. Un figlio che mi avrebbe portato gioia, ma mio marito era di un parere diverso. Non lo voleva e così un giorno mi picchiò forte sulla pancia fino a farmi sanguinare e abortire. Purtroppo non potevo lasciarlo, non avevo nessuno, non sapevo dove andare”.

Il mese scorso Fatima scopre di essere nuovamente incinta. Stavolta non dice nulla al marito. Organizza tutto e scappa via, lontano dal suo carnefice e si nasconde dalla sua amica. Lì Fatima conosce Zohra, e da quel momento le due donne sono inseparabili.

Hanno vissuto inferni diversi ma simili e ora sono unite più che mai dalla speranza di rinascere e sentire la brezza della vita senza paura né terrore.

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