Francesco Virdis

Francesco Virdis

Chirurgo MSF

Abbattere il muro

Francesco Virdis

Francesco Virdis

Chirurgo MSF
Abbattere il muro

Haiti non è stato il mio primo incarico con MSF e, come quelli precedenti, avrà per sempre il suo posto speciale dentro di me. Ogni missione ha la sua storia, il suo cammino, le sue difficoltà, le sue vittorie e le sue sconfitte.

Ma Haiti è stato il posto dove, per la prima volta, la mia fragilità umana ha prevalso sul mio essere un chirurgo; sull’essere razionale e distaccato quanto basta per restare concentrato, soprattutto in ambienti difficili come quelli in cui opera MSF.

E quando quel muro viene abbattuto, rimetterlo in piedi non è mai facile.

Emmanuel

Emmanuel* ha 19 anni. È arrivato al centro traumatologico di MSF a Tabarre venerdì notte. Qui i weekend sono sempre intensi e spesso abbiamo a che fare con tre, anche quattro pazienti con ferite da arma da fuoco che arrivano contemporaneamente.

A chiamarmi è stato il Dr. Laelle. Emmanuel aveva due ferite da arma da fuoco: al petto e all’addome. L’ecografia mostrava anche la presenza di fluidi intorno al cuore. Nei traumi toracici è un grosso problema.

Quando arrivo, Emmanuel è in stato di shock ed è già stato trasferito in sala operatoria. Il team è già pronto. Per prima cosa abbiamo aperto il torace, il polmone era gravemente danneggiato ma siamo riusciti a fermare l’emorragia.

Poi siamo passati all’addome. Abbiamo effettuato una procedura che si chiama “limitazione dei danni” e momentaneamente richiuso per permettere agli anestesisti di continuare a infondere sangue e farmaci per stabilizzare il paziente.

È l’una di notte e l’intervento, tecnicamente, è andato come doveva andare, raggiungendo l’obiettivo di arrestare l’emorragia. Emmanuel morirà alle 9 di mattina, all’età di 19 anni.

Abbiamo fatto tutto il possibile

Abbiamo fatto tutto il possibile, dico a me stesso. Ed è così: non c’era nient’altro che potessimo fare. La colpa non è di nessuno fatta eccezione per chi ha premuto il grilletto.

paziente viene preparato all'operazione all'ospedale di Tabarre, HAITI

La mamma, la sorella e il cugino di Emmanuel arrivano al pronto soccorso. Non sanno ancora niente. Gli spiego quello che è successo.

Siamo molto dispiaciuti, sfortunatamente, non c’era nient’altro che potessimo fare.

La disperazione di quella madre è stato il colpo di grazia a quel muro che, dentro di me, probabilmente aveva già iniziato a sgretolarsi qualche settimana prima.

Il chirurgo dentro di me ha lasciato il passo all’uomo, al padre di una bambina che si trova al sicuro a casa.

Dall’altra parte

Non riesco neanche a immaginare il dolore che può causare una perdita del genere, ma adesso so cosa significa essere genitore e affronto il terrore di essere dall’altra parte.

Nana, la dottoressa a capo dello staff medico, è accanto a me. Percepisce il mio malessere e mi dice di andare, che ne se occuperà lei.

Dovevo raggiungere il reparto di terapia intensiva per controllare un altro paziente che era stato operato. Dobbiamo essere pronti a reagire a ogni complicazione, dico a me stesso. Questo è il nostro lavoro.

Ma sento che stavolta non c’è via d’uscita. Accanto al reparto di terapia intensiva si trova un piccolo ripostiglio. Scivolo dentro e, per la prima volta, lascio che il muro crolli.

Ancora adesso non so se me ne vergogno o se, al contrario, dovrei vergognarmi del fatto che non sia successo molto prima, quando situazioni simili si sono verificate in passato.

Disperazione

Qui ad Haiti, ci sono stati e ci saranno ancora tanti Emmanuel. Durante la mia missione a Tabarre è stato il quarto paziente di quell’età che abbiamo perso a causa di ferite da arma da fuoco.

Il paese si trova in una situazione di incredibile instabilità sociopolitica ed economica, povertà e insicurezza.

Nel mio breve periodo qui ho avuto innumerevoli conversazioni circa la violenza con cui sono costrette a convivere le persone e la paura causata dalle gangs. A Tabarre, ad ogni angolo della strada, puoi essere rapito, derubato o ucciso.

I miei collegi mi hanno parlato della disperazione che le persone affrontano, e della sensazione che non ci sia altra via d’uscita se non quella di cercare una vita migliore negli Stati Uniti. C’è un bisogno reale di diffondere una maggiore consapevolezza circa ciò che le persone vivono in questo posto.

Fare spazio

Questo incarico mi ha anche dato tanta gioia e tante soddisfazioni per tutti i feriti che ce l’hanno fatta, per tutti i pazienti che ci hanno ringraziato quando hanno lasciato l’ospedale.

Quando la tristezza avanza, guardo la foto con Delphine*, scattata il giorno prima che venisse dimessa.

Delphine ha 16 anni e un proiettile le ha perforato l’aorta, l’arteria principale che porta sangue al cuore. Per rimuovere il proiettile senza causare emorragie incontrollate Daphne aveva bisogno di un intervento chirurgico.

Ma questa volta l’abbiamo salvata.

Ricordare il suo sorriso mentre lascia l’ospedale fa riemergere ancora una volta la mia fragilità, ma questa volta per fare spazio e felicità e orgoglio. Eppure, qui ad Haiti, è solo una questione di giorni prima del prossimo dramma.

*I nomi sono stati modificati

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