di Marco Perini, AVSI – People for Development, Responsabile per il Medio Oriente
La rinascita della Siria non è ancora iniziata. Le infrastrutture, quelle poche rimaste, funzionano molto male. Non c’è elettricità. Mancano le scuole, mancano gli ospedali. E mancano gli insegnanti e i medici: a migliaia sono partiti per l’Occidente in questi anni e non stanno tornando. Come vive la popolazione oggi? Molto male. Quando guadagni cento dollari al mese, se hai la fortuna di avere un lavoro, se usi il frigorifero come una credenza e non per conservare i cibi freschi, non è vita. L’inverno si avvicina e, se continua così, la situazione sarà drammatica: come farà la gente a riscaldarsi?
E poi ci sono le tensioni interne, i rischi per le minoranze che compongono il mosaico siriano: il fronte curdo, le violenze contro gli alawiti, gli scontri tra drusi e tribù beduine.
Tantissimi siriani restano in Libano e in Giordania nonostante le condizioni di vita in quei Paesi e le politiche dei rispettivi governi nei loro confronti siano sempre più dure: dal prossimo dicembre, il Libano non riconoscerà più la copertura sanitaria ai rifugiati siriani. Eppure, quelle condizioni sono tuttora più favorevoli rispetto a quelle che troverebbero in Siria, in caso di un eventuale ritorno.
Le attività di AVSI dopo l’8 dicembre
AVSI opera in Siria dal 2013. Durante il conflitto, per sette anni abbiamo supportato tre ospedali cattolici centenari, due a Damasco e uno ad Aleppo. Abbiamo fornito cure gratuite a 180mila persone, il 90% delle quali di religione musulmana.
Dopo l’8 dicembre sono finite le bombe, ma è aumentata la povertà. Ci siamo resi conto che le persone bisognose di cure non riuscivano più a raggiungere gli ospedali.
Per questo motivo, con il supporto di realtà locali, abbiamo aperto sei dispensari nelle aree di Damasco (inclusa quella rurale), Aleppo e Latakia. I dispensari erogano servizi come visite ambulatoriali, ecografie, analisi del sangue, e forniscono farmaci di base, anche per patologie croniche. Già 21mila persone hanno avuto accesso ai dispensari, persone che altrimenti non avrebbero avuto alcuna possibilità di curarsi.
Limitazioni all’azione umanitaria
Durante il regime di Bashar al-Assad siamo riusciti a conservare una certa indipendenza nella nostra azione umanitaria nelle aree controllate dal governo. È chiaro che a Idlib, controllata da quelli che Assad definiva terroristi, non ci consentivano di andare. E non ci andavamo: era una regola di ingaggio che valeva per tutti gli attori umanitari che volevano operare nelle zone controllate da Damasco. In cambio, l’accesso ai nostri ospedali è sempre rimasto libero, non è stata creata alcuna barriera: questo per noi era un prerequisito irrinunciabile rispetto alla nostra presenza lì ed è stato sempre mantenuto e rispettato.
Il lavoro con la società civile
Lavorare con attori locali è necessario per un’organizzazione internazionale come la nostra per poter raggiungere le persone maggiormente in difficoltà alle quali altrimenti non avremmo accesso.
Quella siriana è una società civile effervescente, dinamica, che paga però i quattordici anni di conflitto, durante i quali è rimasta esclusa da processi di formazione e aggiornamento per la quasi totalità degli ambiti. Senza contare il tema delle risorse umane qualificate che hanno lasciato in massa il Paese. Prendiamo l’esempio dei nostri dispensari. Con la fine del conflitto e l’eliminazione graduale delle sanzioni, è possibile comprare un ecografo anche localmente. Il problema è che non ci sono persone in grado di usarlo, tecnici che sappiano utilizzare le attrezzature e i materiali prodotti nell’ultimo decennio.
Il senso di lavorare con le organizzazioni della società civile, dunque, è duplice: raggiungere le persone con i bisogni umanitari più urgenti e, al contempo, far crescere quelle organizzazioni attraverso la formazione e la pratica continua.
I fondi che non ci sono (ancora?)
L’interesse per la Siria è quello che è: ci sono Gaza, l’Ucraina…
Nonostante la caduta di Assad, nonostante Ahmed al-Sharaa sia stato legittimato dalla comunità internazionale come il nuovo leader del Paese, nonostante la maggior parte delle sanzioni siano state eliminate, nonostante molte ambasciate siano state riaperte a Damasco, tutto ciò non ha ancora avuto un riscontro significativo in termini di risorse investite nella ricostruzione e nello sviluppo della Siria e nemmeno per quelle destinate agli interventi umanitari. E dovrebbe trattarsi di risorse importanti, visto che parliamo di un Paese che va totalmente ricostruito.
All’apertura di credito della politica, finora non corrisponde un’apertura di credito finanziario: le ambasciate riaperte a Damasco e ritinteggiate di fresco sono le strutture più nuove presenti nella città.
Il contributo dell’Italia
Le ONG italiane sono le più numerose in Siria, così come in tutta l’area MENA (Medio Oriente e Nord Africa). L’Italia è uno dei Paesi che non ha ridotto le risorse investite nel settore umanitario in Siria e, anzi, le ha persino incrementate.
A Damasco, assieme alla riapertura dell’ambasciata del nostro Paese, c’è stata anche l’inaugurazione di una sede dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS): è un segnale importante, nonostante il peso politico ed economico innegabilmente limitato dell’Italia rispetto a Paesi come Stati Uniti, Germania o Francia.